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Posto di seguito l'ultima intervista pubblicata su Economia Circolare .com Melania Bigi è la fondatrice di Tara, un team che opera soprattutto nel campo delle imprese e promuove la partecipazione e l’innovazione delle dinamiche sociali. In questa intervista per EconomiaCircolare.com racconta il proprio lavoro e la propria visione. “La migliore organizzazione è l’autorganizzazione”.

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Per continuare la nostra riflessione sulla circolarità come nuovo paradigma sociale, abbiamo incontrato Melania Bigi, facilitatrice autrice insieme a Deborah Rim Moiso e Martina Francesca del libro “Facilitiamoci! Prendersi cura di gruppi e comunità” (Ed. La Meridiana, 2015) e fondatrice, insieme a Ilaria Magagna, di TARA (tarafacilitazione.com), un team di facilitatrici che opera soprattutto nel campo delle imprese e promuove la partecipazione e l’innovazione delle dinamiche sociali. Nonostante la figura del facilitatore sia centrale per qualsiasi organizzazione che voglia conciliare efficacia e democraticità interna, è ancora poco diffusa in Italia. Non a caso Bigi si riferisce in modo diretto a un importante facilitatore statunitense, Arnold Mindell, autore di Essere nel fuoco. Gestire la diversità e il conflitto nel lavoro di gruppo come strumenti di trasformazione sociale (Animamundi e Terra Nuova ed., 2011), e fondatore del principio della Deep Democracy.

Ampliare la circolarità
Cosa ne pensa dell’economia circolare?

Penso che sia buon senso. Viviamo in un mondo dove ci sono tantissimi sprechi, e non solo energetici, materiali o di risorse. Ma anche di energia relazionale e talenti, di risorse immateriali o degli scambi tra le persone. In questo senso credo fermamente nell’economia circolare, nel locale, nel glocale. Quando non affrontiamo un conflitto o un problema, le emozioni che reprimiamo dove vanno? Quando non usiamo bene le risorse che abbiamo in un team, quello è uno spreco. Secondo me andrebbe ampliato l’approccio dell’economia circolare, per farlo divenire ecosistemico.

Esiste una logica circolare, una circolarità profonda, nell’attività di facilitazione?

Sì. Il cerchio è probabilmente la figura che rappresenta molti stili di facilitazione. La prima cosa che facciamo quando lavoriamo con un gruppo è mettere le sedie in cerchio, perché così tutte e tutti possono vedere chi c’è nel cerchio. Nessuno è escluso, e nessun è un passo indietro o un passo in avanti. Questo simbolicamente è molto forte. Ma non è solo questo. Spesso parliamo di circolarità delle informazioni, di come le informazioni fluiscono nei diversi livelli di un’azienda o di qualunque tipo di organizzazione. Non è, però, tutta una questione di forma: quando lavoriamo con i grandi numeri, e cambiamo la scala dell’intervento, non possiamo pretendere che sia tutto circolare. Ci deve essere un equilibrio tra l’orizzontale e il verticale. Il cerchio e il triangolo.

Questo se ci fermiamo alla forma. Ma qual è la sostanza della circolarità nella facilitazione dei gruppi?

Il concetto di Arnold Mindell di “Democrazia profonda” ci dice che quando si crea una polarizzazione tra maggioranza e minoranza le cose non vanno, perché la minoranza a un certo punto si arrabbierà perché vivrà un qualche tipo di sopruso da parte della maggioranza, e avverrà un ribaltamento tra le due, in una spirale continua nella relazione tra l’oppressore e la vittima. La sostanza del cerchio è quella di andare al di là di questa dinamica paradigmatica. Del noi contro di voi, del mio-tuo, del giusto-sbagliato. La sostanza è quella di sedersi nel centro comune, che può essere la visione o la direzione comune. Il desiderio di sedersi: mettersi in cerchio e trovare soluzioni che non siano o bianco o nero.

Stiamo parlando di una pratica democratica…

Profondamente democratica: possiamo andare al di là di A e B. Vanno ascoltate entrambe in un’ottica che ci fa trovare C (win/win). È ovvio che non saremo mai soddisfatti allo stesso modo, ma possiamo avere tutti una qualche soddisfazione che ci permette di andare nella stessa direzione. Si sceglie in un’ottica di bene comune. Questo prevede molti metodi, come il “metodo del consenso”, la “sociocrazia”, “l’holacracy”, etc, che presuppongono un lavoro su di sé. Faccio un passo indietro rispetto alla mia verità, per ascoltare quella degli altri. Qualcosa che non ci insegnano a fare a scuola…

Una socialità positiva
In un mondo strutturato gerarchicamente, dove spesso la competizione è il principio guida dominante per le organizzazioni, dove ci sono moltissime diseguaglianze, è difficile pensare che una pratica di facilitazione di questo tipo, che va in tutt’altra direzione, possa essere accettata.

Soprattutto quest’ultimo anno ci ha dimostrato che possiamo fare le cose in modo molto diverso e che è necessario sviluppare l’abilità del cambiamento. È vero che viviamo in un mondo basato sulla competizione, ma questa non è necessariamente sbagliata, come la collaborazione solo giusta. I due concetti presi a sé hanno contemporaneamente dei lati positivi e dei lati negativi. L’importante è essere consapevoli di quando utilizziamo uno piuttosto che l’altro. Per esempio, la competizione non è necessariamente distruttiva, ma può essere anche uno stimolo, una spinta a migliorarci. Esiste anche una competizione sana, quando non si prevaricano gli altri. Lo spirito adrenalinico che aiuta a mantenerci in vita, se accostato ad alcuni strumenti collaborativi, come la fiducia, la costruzione comune, può andar bene. La facilitazione non spinge in una direzione o in un’altra. Per noi, però, il team è più saggio dei singoli, perché può fare emergere l’intelligenza collettiva. Siamo a servizio di un progetto comune, nella facilitazione si lavora in questa direzione. Implicitamente sosteniamo la collaborazione, ma non ricadiamo nello schema classico del “giusto-sbagliato”, e quindi non affermiamo neanche che “la competizione è brutta e cattiva”. Ovviamente, però, non ci riferiamo ad una competizione mossa dall’ansia di sopravvivere.

Nel libro “Facilitiamoci!” emerge chiaramente l’obiettivo di valorizzare il più possibile la dimensione collettiva. In un contesto dove la socialità troppo spesso è tossica, per via della burocratizzazione sociale e di logiche che reificano le relazioni, il vostro è un vero e proprio ritorno alla dimensione positiva della socialità di gruppo: rendere accogliente e giocosa la realtà collettiva. Si può pensare che la facilitazione diventi una pratica generale, oppure è destinata ad ambienti minoritari e ristretti?

Noi di Tara vogliamo far diventare la facilitazione un bene comune. Quel libro nasce per questo. Non nego che una parte di me è molto preoccupata per la tendenza egoica in cui ci ritroviamo, e che negli ultimi mesi si è accentuata. Ognuno pensa al suo orticello. Come i cavalli con i paraocchi. Si sta perdendo sempre di più la dimensione collettivo-comunitaria. Però, mi sembra, allo stesso tempo, che le persone si rendano sempre più conto di quanto sia fondamentale il senso di comunità. Anche solo quello con i vicini di casa! Secondo la mia esperienza, quando le persone fanno esperienza di una relazionalità sana, poi non riescono più a tornare indietro. Una volta che i gruppi la provano non possono più farne a meno. Spingiamo affinché si crei una dipendenza sana dalla facilitazione, e vogliamo dare gli strumenti affinché i gruppi si auto-facilitino il più possibile.

Ma come si può fare esattamente?

Un passo alla volta. C’è bisogno di un cambiamento culturale. Il tipo di rivoluzione che stiamo facendo, è lenta, dolce, gentile. Non significa capovolgere le strutture gerarchiche. I millenni di storia precedente ci hanno insegnato che tagliare la testa al potere non funziona, perché si genera sangue. E quelli dopo faranno esattamente la stessa cosa. Per me l’importante è continuare a crederci, fare rete (perché ci sono molte più persone di quelle che ti immagini che vanno in questa direzione), avere meno pregiudizi possibili (nella mia esperienza, le persone sono più disposte alla comunità di quello che si potrebbe credere, ma non lo sanno). Il problema di base è nelle scuole, nel sistema educativo. Siamo impregnati di una cultura che viene rispecchiata bene dai social media: il valore è proporzionale al numero dei like. Una follia reale. Il motto che abbiamo sviluppato in “Tara” è: “le imprese si trasformino in comunità, e le comunità in impresa”. La nostra idea è quella di essere un ponte tra queste due polarità. Bisogna che le organizzazioni si umanizzino di nuovo.

Sul conflitto nelle organizzazioni
Nel vostro libro fate riferimento, a ragione, alla necessità di superare il paradigma vincitore-perdente. Sintetizzando la pluralità delle voci e degli approcci presenti, si può desumere che considerate il conflitto come l’effetto di una mancanza di ascolto, consapevolezza, e conoscenza di sé. Però esiste una dimensione del conflitto più radicale, dove interessi, valori e visioni, si escludono reciprocamente, e dove esiste una vera e propria diseguaglianza di potere e denaro. Per non parlare di quando c’è dominio, e le relazioni sono mosse da odio o disprezzo. L’aspetto più oscuro del conflitto, il più difficile da trattare, alla base del dissenso profondo, sembra minimizzato.

Sono d’accordo con te: c’è una parte oscura del conflitto, e una parte molto oscura del potere. La facilitazione fa emergere quello che c’è e ti dà l’opportunità di scegliere, ma poi non è detto che uno debba andare nella stessa direzione per forza. Non per forza dobbiamo fare emergere i punti in comune, altrimenti le cose non funzionano in prospettiva. Posso tranquillamente svolgere una facilitazione per fare emergere i punti in comune, senza trattare i nodi difficili, e costruire solo positivamente. Ma poi, dopo qualche anno, non funziona. Ecco perché la facilitazione fa emergere sia i nodi, da una parte, sia le potenzialità, dall’altra. Certo, noi vogliamo alimentare le potenzialità del gruppo. Considera che, soprattutto noi italiani, viviamo in una cultura che tende a vedere soprattutto quello che non funziona. Basta vedere un telegiornale: sono solo notizie negative. D’altra parte è fondamentale fare emergere i nodi, i conflitti, le tensioni, per esplorarle. Spesso usiamo la metafora del gomitolo di lana, tutto attorcigliato, per spiegare cosa facciamo. Noi prendiamo un capo e lo tiriamo. Quando si trova un nodo, si sta là, con pazienza, e cerchiamo di scioglierlo. A volte il filo va tagliato, perché non lo si può sciogliere. Ma questo non lo facciamo noi: è l’organizzazione, il team, la persona che decide di farlo. Noi gli facciamo vedere che non è scioglibile. Quando, per esempio, le visioni del progetto sono radicalmente diverse. Andare necessariamente d’accordo è molto doloroso: è come stare in una relazione che non va bene. Perciò ci vuole una grande consapevolezza di sé per lavorare in Team. Devo capire se il posto è giusto per me. Altrimenti è meglio andare via. Non si devono adattare tutti gli altri ai miei bisogni. Ci vuole una cultura basata sul feedback. Mi spiego. Nella nostra cultura cattolica abbiamo tutti interiorizzato un critico interiore gigantesco: noi vorremmo cambiare questa parte della cultura, basandoci sul feedback. Il che significa che ti dico sia le cose che vanno bene sia quelle che non vanno bene. Ma sempre in un’ottica evolutiva. Di miglioramento. Perciò ci si riferisce al modo in cui si fanno o dicono le cose, non alle persone. Questo è un cambiamento gigantesco. Come il fatto di affrontare il conflitto e non evitarlo, come avviene in Italia, dove i problemi vengono messi dentro l’armadio o sotto il tappeto. A tutti i livelli (anche familiare e relazionale). Non ci viene insegnato a fare conflitto in modo sano. Ma dobbiamo evitare di accettare la violenza gratuita. Come possiamo trasformare la rabbia o l’insoddisfazione e la frustrazione, che sono sentimenti evolutivi, in qualcosa di positivo? Ecco il punto. La critica da sola, dove si esprimono emozioni solo negative, è distruttiva. Deve essere legata alla proposta.

Potere e trasformazione
Per te, come per Mindell, ciò che è più importante nella facilitazione è la consapevolezza della diversità del potere. Non a caso lui parla di “eguaglianza della consapevolezza”. L’importante è essere consapevoli del posto che uno ha, del modo in cui esercita il potere e delle circostanze in cui questo avviene. Molto spesso, però, pur avendo consapevolezza, resta il problema delle diseguaglianze portate dalle gerarchie interne ai gruppi. Fare emergere quanto è comune in presenza di problemi relativi alla struttura organizzativa, alla sua gerarchia, può risultare davvero complicato, non trovi?

Sicuramente ci sono delle difficoltà. A volte non possiamo lavorare con i gruppi. Noi lo facciamo solo se c’è un impegno al cambiamento da parte dei vertici. Se il consiglio di un’organizzazione non è disposto a cambiare e vedere che il vertice ha un impatto sul resto del sistema che può essere anche fortemente negativo, non possiamo fare nulla. E questo ci è capitato alcune volte. All’inizio abbiamo lavorato moltissimo in dinamiche bottom-up, dal basso. Sulla partecipazione popolare. Bellissima. Però se vogliamo cambiare davvero questa società dobbiamo lavorare sui vertici. Tra un po’ si capirà che i sistemi come sono organizzati adesso non funzionano. Perché le risorse sono limitate, finiranno, e bisognerà cambiare in maniera radicale il modo di fare economia. Ma c’è sempre la possibilità in futuro la diseguaglianza sia ancora più marcata. Lavoriamo per evitarlo.

Quindi nella circolarità non si prende solo coscienza del potere, ma si avvia un processo che rende più eguali le persone all’interno del gruppo, che stimola una “eguaglianza nel potere”?

Per me questo è il passaggio successivo. Se vedi ciò che afferma Frédéric Laloux nel suo lavoro Reinventare le organizzazioni (Guerini 2016, ndr), dove parla di “organizzazione Teal”, capirai che uno dei pilastri per reinventare l’organizzazione è l’autorganizzazione: ma la distribuzione del potere non è solo circolare, ed è allo stesso tempo molto più complessa e molto più semplice. In questo nuovo tipo di organizzazione, i gruppi si autorganizzano in gruppetti ricoprendo più o meno tutte le funzioni necessarie per produrre. Tanti micro-team di 12-15 persone che trasformano così la grande azienda, eliminando la sua struttura verticistica. Un insieme di tanti piccoli sottogruppi che vanno nella stessa direzione, dove è molto chiara la visione e l’obiettivo dell’azienda. Strutture molto meno burocratiche e con una responsabilità più diffusa. Quindi sono assolutamente d’accordo con te.

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