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Oltre alla mia riflessione di qualche giorno fa, cominciano a svilupparsi altre considerazioni che vanno nella stessa direzione. Le ospito volentieri su questo blog, come farò anche in futuro. Ecco intanto tre articoli interessanti, sperando che si sviluppi un vero dibattito pubblico sulle questioni che stiamo ponendo. Nel video un esempio della contraddittoria cecità delle posizioni democratiche ufficiali (Prodi).
"La cura (in) folle"
di RAFFAELE LUPOLI
Link: https://www.facebook.com/notes/associazione-dasud/mappe-la-cura-in-folle...

Siamo al classico bivio. Da una parte la discesa. Tanto ripida. Qualcuno la definisce baratro. Dall’altra una curva strettissima, a doppio senso di marcia ma a corsia unica: andiamo senza sapere chi e cosa arrivi dalla direzione opposta.
Lo intravediamo quell'angolo che ci impone la scelta, ormai è vicinissimo. La segnaletica c'era già da un po', a dirci che era tempo di scegliere. A dirla tutta i primi avvisi li abbiamo visti quando il baratro era ancora una discesa ripida e la curva dall'altra parte era meno stretta, lasciava qualche margine di manovra.
Abbiamo continuato a correre.
Qualcuno ha anche lanciato un grido, dal ciglio della strada. "Disturbatori" abbiamo pensato, accelerando per allontanare presto l'eco. In qualche caso abbiamo anche sterzato leggermente verso gli urlatori, per poi riprendere la corsa: "Ti metto sotto imbecille buono a nulla. Io corro con il vento nei capelli verso il successo, lo sviluppo, e tu che fai? Urli che dobbiamo rallentare? Che dobbiamo svoltare in un'altra direzione, finire in un luogo assurdo in cui si corre meno ma in tanti? Sei un folle, quasi quasi ti metto sotto e faccio un favore all'umanità".
Folle: una parola con tanti significati. Quando decidi di non avere la marcia ingranata, quando la lancetta della bussola si agita di continuo in prossimità del polo magnetico. Quando ciò che pensi, che dici, che fai è spinto da una visione deformata o travisata della realtà. Parola di dizionario.
Viene da fare un confronto, da cercare di capire in questi ultimi trenta, quarant'anni chi sia stato più (in) folle. Chi diceva fermiamo la macchina prima che sia troppo tardi? Chi segnalava come una lancetta "impazzita" l'approssimarsi del punto di non ritorno? O chi accusava le prime due categorie di avere una visione distorta della realtà?
Quale di queste categorie voleva e vuole fare un favore all'umanità?
Riflettiamoci, pensiamoci soltanto per un attimo ora che non possiamo permetterci il "business ad usual", che non possiamo vantarci di non avere orari fingendo di lamentarcene. Ora che, a pochi metri da un bivio che non abbiamo ancora deciso come affrontare, una grossa buca ci fa sobbalzare e dilata il tempo, rallenta la corsa, cambia la nostra routine.
La scelta è ora è qui. Uscire da questa buca tragica e forse salvifica senza una decisione significa optare per inerzia, procedere con inedia verso il precipizio.
Sì, qui ed ora e non dopo. Perché ora è il momento di rendersi conto di dove ci stia portando la frammentazione della società, il crescente accumularsi di ricchezza nelle mani di pochi individui, la miopia davanti ai mille segnali che ci avvertono che la Terra presto non sarà più un posto per umani.
Questa grossa buca chiamata pandemia è il segnale dei segnali. Rosso come un intero Paese, come il Pianeta. Un segnale che ci dice di restare a casa, ma non certo di sospendere o rinviare le scelte, perché anche quella è una scelta. Dobbiamo stare lontani ma non rinunciare ad essere sociali, solidali. Anzi, questo tempo dilatato ci può consentire di essere meno soli nella decisione. Possiamo decidere insieme: ce lo consentono la tecnologia e la temporanea sospensione del nostro correre quotidiano che, pensateci bene, quasi sempre è più solitario della condizione che viviamo oggi, al tempo del coronavirus.
Ora che siamo pressoché tutti forzatamente in folle, nei nostri rifugi ovattati, non rinunciamo a presidiare gli spazi! Quello della democrazia innanzitutto, perché è importante riflettere sulla necessità di esercitare sovranità popolare, controllo civico e se necessario diritto di critica e dissenso anche quando fuori c'è il coprifuoco. Anzi, a maggior ragione dobbiamo praticare cittadinanza attiva e responsabile quando drammatici eventi esterni impongono una oggettiva compressione dei diritti.
Allora vediamoci, anche se da uno schermo. Riuniamoci per analizzare questa situazione e per parlare insieme del dopo. Un dopo che mai come adesso dipende dal durante, non soltanto perché se stiamo lontani si blocca il contagio, ma anche perché in questo durante abbiamo una opportunità unica.
Tante e tanti stanno approfittando per sistemare casa, appendere quei quadri o riparare quel rubinetto che attendevano da mesi, se non da anni. Ecco, prendiamoci cura anche del nostro spazio pubblico in queste settimane in zona rossa: incontriamoci (la tecnologia ce lo consente, ripeto), decidiamo insieme del nostro futuro costruendolo già oggi, in questa attesa che non possiamo permetterci, che deve diventare azione per evitare che altri agiscano per noi.
Discutiamo ad esempio di chi e come spenderà i 25 miliardi messi sul piatto per uscire dall'emergenza. Ci prenderemo finalmente cura della sanità e della scuola pubblica? Si continuerà con le autostrade inutili o si punterà sulle ferrovie e sul trasporto pubblico locale? Liberiamo le città dalle auto e il Paese dalle mafie? Diamo soldi a inquinatori e speculatori o agli innovatori sociali e alle imprese (realmente) sostenibili?
Confrontiamoci, organizziamoci, torniamo a essere protagonisti e custodi del cambiamento che vogliamo. Facciamolo anche per chi non si ferma per garantire la nostra incolumità, il nostro benessere nonostante tutto.
Parliamo anche dei nostri timori, delle ansie e incertezze anch'esse contagiose: la paura non diventa panico se la mettiamo in comune e se restiamo davvero insieme. Così come rimanere a casa oggi significa stare meglio in strada domani, prendersi cura adesso collettivamente di ciò che è fuori e di ciò che arriva dopo il coronavirus può fare la differenza.
Ora davvero non abbiamo tempo da perdere. Ora che il virus della frenesia collettiva è stato temporaneamente fermato da un altro virus che ci costringe a rallentare, ci regala del tempo per curarci, per curare.
Siamo momentaneamente bloccati nella buca prima del baratro. Se ci limitiamo alla cura dello spazio privato ci ritroveremo poi uno spazio comune che non ci piace. Se scegliamo insieme - e adesso - qual è la direzione giusta, sarà meno difficile imboccare - tra pochissimo tempo - la via tortuosa e in salita che porta al traguardo di un futuro migliore per tutti.
*(Giornalista, daSud).

"Virus non indebolisca le difese immunitarie dello Stato di Diritto."
di NICOLA CANESTRINI
Link: https://www.azionenonviolenta.it/virus-non-indebolisca-le-difese-immunit...

Come noto, il giorno dopo la dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per l’epidemia di Covid-19 (il cosiddetto nuovo coronavirus) da parte dell’Organizzazione mondiale per la Sanità, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha deliberato lo “stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, con un provvedimento fondato sull’esercizio dei poteri in materia di protezione civile previsti dal d.lgs 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), che, all’articolo 24 disciplina lo “stato di emergenza di rilievo nazionale”.

“I virus possono avere conseguenze più forti di ogni azione terroristica”.

Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 11 febbraio 2020

La dichiarazione di stato di emergenza prevede la possibilità di derogare alla legislazione vigente fermo restando il “rispetto dei principi generali dell’ordinamento“; le ordinanze di protezione civile emesse nell’ambito di uno stato di emergenza di rilievo nazionale, ai sensi dell’articolo 25, comma 1, d.lgs 1/2018 possono essere adottate “in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea”.

Su questa base sono poi stati emanati i veri decreti del presidente del consiglio dei ministri (DPCM), che – con qualche colpevole imprecisione – hanno adottato le misure ritenute idonee a contenere l’evento emergenziale: alcune di queste misure, laddove impattanti su tutto il territorio nazionale e che sono indirizzate a tutta la popolazione (a partire dal DPCM del 9 marzo 2020) hanno impattato pesantemente su diritti costituzionali (o diritti fondamentali).

Parliamo della libertà di circolazione, soggiorno ed espatrio (articolo 16 della Costituzione); di riunione (articolo 17 della Costituzione); di esercizio dei culti religiosi (articolo 19); di insegnamento (articolo 33); su garanzia e obbligo di istruzione (articolo 34). Le misure di contenimento possono incidere poi sulla libertà di iniziativa economica (articolo 41, primo comma); altri diritti potranno essere limitati in un vicino futuro, come ad es. il diritto alla riservatezza, diritto all’identità personale, diritto alla protezione dei dati personali (artt. 2, 3, 13, 14, 15, 21, laddove si ipotizza un geotracking per sorvegliare la popolazione).

Alcuni di questi diritti costituiscono senz’altro principi fondamentali dell’ordinamento, e possono quindi essere temporaneamente limitati ma mai (nemmeno implicitamente) abrogati; molti trovano esatta corrispondenza anche nelle carte sovranazionali, sia dell’Unione europea che mondiali.

Naturalmente si ritiene che il bilanciamento dei beni costituzionalmente rilevanti abbia come parametro l’articolo 32 della Costituzione: la norma costituzionale indica la tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo” che tuttavia va in qualche modo contemperata con “l’interesse della collettività”.

Fino a che punto si può però spingere il “bilanciamento”, cioè il sacrificio di diritti costituzionali in nome della pretesa tutela della salute collettiva?

I diritti fondamentali valgono anche (e soprattutto) nell’emergenza.

Il tema ci deve interrogare: anche a livello internazionale si è ritenuto di evidenziare un possibile abuso dello stato di emergenza, ad esempio per silenziare oppositori politici (cfr. Doug Rutzen and Nikhil Dutta, “Pandemics and Human Rights”, 12 marzo 2020).

Ma anche senza voler arrivare alla strumentalizzazione palese, oltre 15 esperti delle Nazioni Unite nella dichiarazione “COVID19: States should not abuse emergency measures to suppress human rights” hanno espresso preoccupazione per l’impatto non giustificato sui diritti fondamentali di regole emergenziali sproporzionate, evidenziando che “to prevent such excessive powers to become hardwired into legal and political systems, restrictions should be narrowly tailored and should be the least intrusive means to protect public health”; hanno oltre incoraggiato gli Stati “to remain steadfast in maintaining a human rights-based approach to regulating this pandemic, in order to facilitate the emergence of healthy societies with rule of law and human rights protections“.

Già, perchè le regole valgono anche, o forse soprattutto, nelle emergenze, e una deroga dovuta ad una situazione emergenziale rischia di introdurre il deleterio pensiero che, tutto sommato, i diritti fondamentali siano a disposizione delle autorità a seconda delle esigenze, e che quindi la loro portata sia sminuita anche in contesti di normalità.

Qualche costituzionalista ha segnalato la criticità degli strumento normativo adottato, quello di un decreto del presidente del governo, collocato in una zona grigia tra atto politico ed atto amministrativo, sostanzialmente dunque inoppugnabile nel merito e slegato dal controllo di Parlamento, Presidente della Repubblica e della stessa Corte Costituzionale.

Ma a preoccupare ancora di più è l’interpretazione “autentica” del Volksgeist italico: dall’alto delle bacheche dei social, novelle Gazzette Ufficiali, il popolo non ha tardato di conferire ai testi originari una vulgata diversa dall’originale.

Ma anche le autorità preposte al controllo – che stanno adottando atteggiamenti ben più rigorosi di quelli consigliati dal Ministero dell’Interno – e persino alcuni rappresentanti degli enti locali hanno preteso di sostituirsi agli organi dello Stato, adottando comportamenti o disponendo provvedimenti non interpretativi, attuativi, esecutivi o integrativi degli atti emanati, ma molto più restrittivi (si veda ad esempio il tema della attività motoria all’aperto, consentita in quanto “necessità” dalla circolare del Ministero dell’Interno ma negata da molti).

Il tutto, naturalmente condito dal plauso del popolo social, autoproclamatosi massimo esperto di epidemiologia, plauso motivato ancora una volta dalla cattiveria, diventata secondo il rapporto CENSIS 2018 “la leva cinica di un presunto riscatto”, e che “si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”, gettando l’Italia in preda al “sovranismo psichico”, viatico di atteggiamenti che “talvolta assum(ono) i profili paranoici della caccia al capro espiatorio”.

Ma dobbiamo dirlo con chiarezza: un diritto che dipende dal beneplacito dell’autorità non è un diritto, è un favore, una concessione, nulla più: e a chi accetta tale impostazione sulle ali della paura, andrebbe ricordato che secondo Zygmunt Bauman, autorevole studioso della post modernità, “la paura è gemello siamese del male“.

La paura rischia quindi di accettare compromessi che semplicemente non possono essere accettati, pena la trasformazione dello stato di diritto.

Spetta dunque a tutti noi non consentire che vengano abbassate le difese immunitarie della Costituzione, per evitare che nell’organismo indebolito della democrazia parlamentare e della rule of law possano insinuarsi patogeni esterni che speravamo sconfitti da un pezzo, ma che invece si sono rafforzati più che mai.

La soluzione quindi non sta nell’individualismo, nel sovranismo, nell’egoismo, ma nella solidarietà: dalle emergenze si esce facendo rete, anche riscoprendo il valore di comunità (come dimostrano le iniziative di flash mob di queste ore), e soprattutto rispettando le regole, che valgono come detto anche ed anzi soprattutto nei momenti di emergenza. Peraltro, poi, con quale legittimità invochiamo aiuti dall’Europa se rifiutiamo, o minacciamo di rifiutare, di dare assistenza ai nostri connazionali (come incredibilmente è successo in Trentino, terra con forti tradizioni di solidarietà)?

Qualcuno potrebbe infatti esser tentato di considerare ogni critica disfattismo; e qualcuno si chiederà che male ci sia nell’imporre comportamenti che qualcuno ritiene possano comunque avere una qualche utilità ai fini di contenere il contagio?

Evil and fear are Siamese twins.
Zygmunt Bauman

Nulla contro i comportamenti prudenziali, auto responsabili, solidali e rispettosi di chi in questo momento di emergenza deve gestire o lavorare in una sanità pubblica incrinata dalle riforme sempre più tese al profitto di pochi. Anzi: il cambiamento (si spera: in meglio) deve partire dal basso, cioè da ognuno di noi.

Il problema si pone quando questi comportamenti, invece di essere incoraggiati e quindi adottati su base volontaria, vengono imposti senza alcuna base legale: c’è un limite all’approccio sostanzialistico del diritto, e si chiama rispetto dello Stato liberale di diritto.

I cui principi chiedono che sia il potere legislativo ad emanare le norme, il potere esecutivo ad assicurarne il rispetto, e a quello giudiziario a risolvere eventuali controversie, che non vi possano essere sanzioni se non nei casi previsti dalla legge, senza scorciatoie basate sull’asserito bene comune.

"Così le norme contro il virus possono rievocare il «dictator»"
di MACRO OLIVETTI
Link: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/cos-le-norme-contro-il-virus-pos...

In un momento di evidente emergenza, come quello causato dalla diffusione in Italia del nuovo coronavirus, interrogarsi sulla compatibilità con la Costituzione delle misure sinora adottate dal Governo potrebbe sembrare un lusso che non possiamo permetterci. Ma questo approccio al problema, che forse istintivamente è inevitabile, equivarrebbe a mettere la Costituzione in quarantena, muovendo dall’idea che essa vale per i tempi normali e non per quelli eccezionali. Un’idea, questa, assai risalente, che potrebbe trovare la propria radice ultima nella Dittatura cui i romani facevano ricorso in situazioni di pericolo per la Repubblica, introducendo in quel caso una figura giuridica – il dictator, appunto – che per sei mesi sostituiva i consoli.

Le Costituzioni scritte, dalla fine del Settecento a oggi, hanno ripreso in vario modo questa idea, individuando organi e procedure per la gestione delle situazioni di macro e di micro–emergenza: stati di guerra, stati di assedio, stati di emergenza di vario tipo. In effetti, in tali fasi della vita civile, la forza della Costituzione si attenua, ma nei tempi più recenti si tende sempre più a sottolineare che essa non viene meno, e opera invece in modo diverso rispetto alle situazioni ordinarie. Le conseguenze principali sono due: una, che attiene alla Costituzione dei diritti, consente la compressione dei diritti fondamentali (ma non, di norma, la loro completa soppressione); l’altra, che concerne la Costituzione dei poteri, individua organi e procedure appositi, diversi da quelli ordinari, per far fronte all’emergenza.

Il Governo italiano ha sinora fatto ricorso a due strumenti. Da un lato ha inquadrato la situazione di emergenza generata dal nuovo coronavirus come un evento igienico–sanitario idoneo a far scattare l’apparato della Protezione civile e ha dichiarato a tal fine lo stato di emergenza sanitaria. D’altro lato, quando il virus ha investito direttamente e drammaticamente alcune parti del territorio italiano, ha adottato un decreto legge (il n. 6 del 2020), che ha individuato una serie di interventi limitativi delle libertà e di altri diritti fondamentali e ne ha rimesso l’attuazione a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. In questo quadro, tre dpcm (sigla che, appunto, indica i decreti del Presidente del Consiglio) si sono susseguiti in pochi giorni, per far fronte all’emergenza.

Con il sistema attuale il Presidente del Consiglio viene di fatto abilitato a stabilire quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Uno schema che appare problematico Solo a crisi terminata sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coerenza di queste misure, considerate nel merito
L’ultimo di essi, datato 9 marzo 2020, regola attualmente la materia richiamando ed estendendo all’intero territorio nazionale quanto stabilito il giorno precedente, 8 marzo, per la Lombardia e alcune province di Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Marche. Letti assieme al decreto legge 6 del 2020, questi decreti hanno messo in campo la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte: non è solo limitata la libertà di circolazione, ma anche quella di riunione, così come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro e la libertà di iniziativa economica, nonché, almeno in parte la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa e la stessa libertà personale, pur con una serie di meccanismi di flessibilizzazione dei divieti e delle prescrizioni che in taluni casi li riducono a mere raccomandazioni.

Solo a bocce ferme, vale a dire a emergenza superata, sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coe- renza di queste misure, considerate nel merito. Ed è bene dire fin d’ora che una attenta verifica tecnica dovrà essere compiuta, auspicabilmente da parte di una Commissione tecnica, che sottoponga un rapporto al Parlamento e all’opinione pubblica. Nel frattempo, ci si può chiedere se le procedure che il Governo ha deciso di seguire siano costituzionalmente corrette. L’Italia, infatti, a differenza della Cina, che ha adottato misure ancor più drastiche nella provincia dell’Hubei, è uno Stato costituzionale di diritto e non un regime totalitario, e anche quanto sta accadendo in questi giorni non può sfuggire al limite costituzionale, anche se è inevitabile che ogni snodo del sistema costituzionale sia messo in tensione in circostanze come quelle attuali, come del resto accade per la vita dei cittadini.

Due osservazioni si impongono. La prima è che le basi costituzionali del sistema di disciplina dell’emergen- za regolato dalle norme sulla protezione civile sono fragili. Si tratta infatti di un sistema cresciuto gradualmente nella legislazione ordinaria e riordinato con una riforma dei primi giorni del 2018. Tale sistema, in particolare, è del tutto privo di una fase parlamentare nell’esame della dichiarazione dello stato di emergenza. Esso, inoltre, è stato applicato a una emergenza sanitaria quantomeno stiracchiandone un po’ la portata, dato che le sue norme sono concepite per emergenze di altro tipo (soprattutto calamità naturali). Esso, quindi, non individua i provvedimenti limitativi dei diritti fondamentali e anche per questo il Governo è intervenuto con il decreto legge n. 6 del 2020.

Quanto a tale decreto legge, esso autorizza limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo fa in maniera generica, sicché tutte le regole sono delegificate, in quanto il loro contenuto è rimesso a decreti del Presidente del Consiglio. Questi ultimi sono sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare. Il Presidente del Consiglio diventa quindi una specie di dictator, abilitato a stabilire effettivamente quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Questo schema appare costituzionalmente problematico e ci si può chiedere se le esigenze di efficacia che hanno spinto a disegnarlo non possano essere soddisfatte con soluzioni procedurali più compatibili con la struttura costituzionale italiana.

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