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Qui a Economiacircolare.com sappiamo bene che il Piano nazionale di ripresa e resilienza col quale l’Italia comincia ad affrontare la ripresa post-Covid sarà fondamentale per le sorti del nostro Paese – tanto da avere dedicato al tema la rubrica In Circolo, ricchissima di contributi esterni, e numerosi articoli specifici. Tra i tanti aspetti che il Pnrr permette di affrontare, sia quando li affronta di petto sia quando li svia, c’è certamente quello della partecipazione democratica. Diventa fondamentale offrire un’analisi ampia e articolata – anche alla luce del Decreto Semplificazioni, ora in discussione in Parlamento, che intende restringere quegli spazi. Dopo aver affrontato il tema in una riflessione autonoma, abbiamo deciso di proseguire l’occasione di dibattito attraverso il confronto con Giovanni Allegretti, esperto internazionale dei processi di partecipazione democratica. Un curriculum molto ricco, il suo: Allegretti è architetto, urbanista e ricercatore senior presso il Centro di Studi Sociali (CES) della facoltà di economia dell’Università di Coimbra. Tra i primi ad occuparsi di bilanci partecipativi in ambito accademico, è membro dell’Istituto Nazionale di Scienza e Tecnologia “Democrazia e democratizzazione dell’informazione” presso l’Università Federale del Minas Gerais in Brasile e del Consiglio Scientifico del Participatory Budgeting Project negli Stati Uniti.

Pandemia ed economia circolare

Mi sembra che la pandemia abbia messo in luce dei problemi, se non proprio dei drammi, democratici importanti: dalle restrizioni dei diritti della popolazione all’aumento delle diseguaglianze sociali, al problema del mercato dei vaccini e al fatto, più generale, di non mettere al primo posto davvero il diritto alla salute. Per dirlo rapidamente: la popolazione non è stato soggetto attivo, portatore di diritti, capace di dare indicazioni al legislatore su come modulare le politiche pubbliche in tema di lotta alla pandemia. È stato piuttosto oggetto passivo su cui intervenire, o, al limite, da proteggere d’autorità. Cosa ne pensa?

Riassumo questo anno e mezzo di mancata partecipazione con la frase “la politica è fatta da deficienti”. Perché se fossero persone intelligenti avrebbero capito che con la partecipazione avrebbero potuto salvare molte ma molte più cose di quanto non abbiano fatto. Quando si parla della crisi democratica legata alla pandemia, però, non parlerei delle cose che hai elencato, anche se sono problemi veri ovviamente. Parlerei di una questione più ampia, cioè del fatto che questa tragedia collettiva è stata affrontata con una visione miope della politica, sulla base di quest’idea: “dato che ho il potere, lo gestisco”. Ci sono dei momenti in cui devi ricostruire il vivere civile, e in questi momenti è necessario allargare lo spazio dei consultati, lo spazio dei “co-costruenti”. Invece non è stato fatto. Quasi da nessuna parte. Il fatto che i cittadini si sarebbero rotti le scatole di venire comandati a bacchetta in ogni dettaglio della loro esistenza era prevedibile. Questo rifiuto è, in parte, espressione di ignoranza ed è anche molto altro: anche la paura verso una politica che agisce in modo automatico e autoritario, senza spiegare nulla. Quello che la politica stupidamente ha dimenticato, o ha messo da parte, è che oggi la realtà è una costruzione sociale. E al suo costruirsi socialmente non si può non dedicare del tempo e delle energie: la comunicazione, i dati aperti, la partecipazione come garanzia della persona di sentirsi inclusa in una cosa molto complessa, sono fondamentali. Siamo in presenza di un grande errore di prospettiva, di una miopia politica: aver considerato che la partecipazione fosse un orpello. Credo che con la fuoriuscita dalla pandemia abbiamo un’opportunità enorme, quella di ripensare i processi partecipativi non solo come processi di politiche e di politica, di nuova politica e di nuove politiche, ma anche come processi di ricostruzione delle relazioni tra le persone. Primariamente significa ricostruire una civiltà di relazioni, secondariamente è anche un’opportunità enorme di arricchire la decisione politica. Naturalmente se la politica è autoreferenziale e pensa che il potere si acquisisca solo esercitando la discrezionalità decisionale, è una politica stupida e miope. Perché il potere è fatto, più che in passato, di autorità morale. E l’autorità si guadagna anche con l’apertura agli altri.

Anche in relazione al piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dove si prendono in considerazione, qual è la sua opinione sull’economia circolare e sulla transizione ecologica?

Ho avuto la fortuna di lavorare in Groenlandia un inverno che non c’era il Covid, proprio sul tema della partecipazione: ho intervistato alcuni rappresentanti di movimenti giovanili che lavorano su una nuova visione verde della Groenlandia. La prima cosa che mi hanno detto è stata: “C’è bisogno di un’inversione di tendenza nel movimento ecologista globale. Perché è colonialista. Perché da noi, nell’Artico, quello che fa è imporre una propria visione dell’economia circolare (e rifiutare la caccia alle balene e alle foche), e così ci siamo ritrovati a diventare un Paese molto più dipendente oggi dall’Europa e dal resto del mondo, di come non eravamo prima”. Alla fine mi hanno detto che c’è una battaglia da fare per decolonizzare il movimento ecologista internazionale e ripensare l’economia circolare come un’economia che deve avere relazioni anche con l’evoluzione culturale e storica dei differenti luoghi. Che non può imporre un modello unico a tutti i Paesi del pianeta. Senza partecipazione, poi, l’ambito ambientale non ha alcuna possibilità. Abbiamo bisogno di spazi dove le persone gradualmente imparino a capire, e che abbiano gli strumenti per capire la realtà complessa, perché sappiamo che la semplificazione va nella direzione dei populismi.

Il Pnrr senza partecipazione democratica

A questo proposito, nel Pnrr non c’è nessuno strumento che rafforzi la partecipazione popolare e le pratiche democratiche sociali, sia democrazia diretta, partecipata, digitale, etc. Cosa ne pensa?

Una delle idee di base di cui si discute da anni e che praticamente nessuno applica, è che basterebbe un codicillo che dica che ogni politica deve dedicare l’1% o anche lo 0,5% a processi di accompagnamento comunicativo-partecipativi. Già una cosa così minima significherebbe affermare che nulla si può più fare senza sperimentare pratiche democratiche. Poi le pratiche, quando se ne fanno tante, alla fine si affinano, perché la gente comincia a protestare che sono mal fatte. Così, poi, lentamente, migliorano. Quando si instaura un movimento, e le persone ci sono dentro, e controllano e osservano, lentamente i miglioramenti si vedono. Quindi basterebbe una cosa di questo tipo, che è ancora inseribile nel piano di resilienza. È ancora possibile immaginare che l’Italia intervenga su questo, perché non stai toccando la distribuzione dei fondi, ma stai dicendo che ogni fondo, qualsiasi sia il tema che tratta, deve essere gestito dando un’attenzione a questo aspetto.

In relazione alla transizione ecologica, nel Pnrr si fa riferimento a una strategia nazionale e a obiettivi (come l’ecodesign, gli ecoprodotti, la blue economy, la bioeconomia), tra i quali viene data una centralità alla questione del riciclaggio dei rifiuti, con una visione molto ristretta. Noi di Economiacircolare.com riteniamo che sia centrale poter sviluppare tutta questa strategia in modo democratico e partecipativo. Come si possono realizzare progetti pubblici in modo da mettere al centro la partecipazione democratica dei cittadini?

Credo che siamo ancora in tempo a farlo in questo modo. Il Recovery plan fissa i temi in cui devono essere investiti i soldi, però non stabilisce una volta per tutte come si devono raggiungere gli obiettivi. Credo questo: in Italia abbiamo avuto un enorme ritardo in relazione ai dibattiti pubblici. Si è fatta una legge tra il 2015-16. Si è fatto un regolamento nel 2018, e il 30 dicembre del 2020 si è nominata la commissione che dovrà sovrintendere ai dibattiti pubblici. La prima cosa sarebbe, forse, un’estensione dei dibattiti pubblici agli ambiti delle politiche come succede in Francia e in Canada, e non solo ai progetti. Credo che sia importantissimo non considerare, per esempio, la tecnologia, come elemento assolutamente indispensabile in tutte le fasi di un progetto e di una politica, ma discutere con i cittadini qual è il suo limite in questi processi. Perché non siamo ancora a nostro agio con la tecnologia (specialmente alcune generazioni). Quindi penso che il co-deseing partecipativo debba essere prima di tutto relativo al COME FARE partecipazione. Il problema, in questo senso, è anche come costruisci temporalmente il rapporto tra i risultati e la crescita di partecipazione. Perché la partecipazione dal secondo anno in poi dipende dai suoi risultati. Se non ha risultati non produce un aumento del bacino di utenza potenziale. Oggi abbiamo uno strumento come il dibattito pubblico, uno strumento per aumentare la qualità della decisione, che è la sua caratteristica peculiare, e funziona. La gente non spreca il suo tempo se sa di non venir ascoltata, e infatti il 95% dei dibattiti incorporano una buona parte dei suggerimenti che vengono dal basso durante il processo. Perché se l’obiettivo è migliorare la politica e rispondere ad una ad una a tutte le proposte, il soggetto incaricato non può più fare come prima, ossia ignorare le altre posizioni: deve in qualche modo giustificare la propria, e, mentre cerca di cambiarla, la deve giustificare per forza. Eppoi, se tu guardi l’atlante dei bilanci partecipativi nel mondo, vedi che ci sono 11.700 processi in corso, di cui oggi un grande numero crescente è fatto nelle scuole o in dipartimenti universitari, e che diverse volte sono gestiti dai managers o dai direttori, che capiscono che, da un punto di vista della soluzione finale, la partecipazione è portatrice di nuove soluzioni. Una delle cose più importanti negli studi sulla partecipazione, ultimamente, è relativo a quanto il monitoraggio e la co-decisione portano alla riduzione dei tempi. Mi ricordo che Claudio Martini, il presidente della Regione Toscana dell’epoca in cui è stata fatta la legge sulla partecipazione, diceva: “non c’è nulla di più fasullo nel dire che la decisione topo-down è la più rapida”, perché essa si blocca davanti alla prima protesta.
Rafforzare la partecipazione democratica, a partire dal territorio.

Nel libro “Ricomporre i divari. Politiche e progetti territoriali contro le diseguaglianze e per la transizione ecologica” lei si è occupato del tema della partecipazione democratica su scala locale. Il suo saggio si chiama “Sulla partecipazione: strumenti di attivazione della democrazia degli abitanti”. Cos’è la democrazia degli abitanti? E come si possono sviluppare politiche partecipative a livello territoriale?

Il dialogo con i colleghi è stato bello. Ogni capitolo è stata una grande discussione. Perché dovevamo mettere insieme delle cose che raramente vengono messe insieme: i diritti di cittadinanza con i diritti di partecipazione. Due facce della stessa moneta, ma che raramente vengono riconosciuti come tali. Adesso sto coordinando un progetto sul “diritto al voto dei cittadini in mobilità intraeuropea”: diritto di votare nel comune dove stai risiedendo, oltre che per il tuo comune di provenienza. È una rottura del paradigma legare strettamente la residenza e i diritti di partecipazione. Quello che noi abbiamo cercato di fare è mostrare come si dovrebbe agire gradualmente, anche sulle leggi dell’immigrazione, della residenza, del diritto al voto degli stranieri, in modo tale da avere un sistema partecipativo che può essere un primo cuneo, una prima leva, per sancire il diritto di opinare, e, per noi, di co-decidere, su ciò che riguarda i territori che loro co-costruiscono. Ci sono state delle grandi epoche di partecipazione in Italia. Penso alla fine degli anni ‘90. Oggi abbiamo delle potenzialità, probabilmente dentro lo stesso piano di resilienza, di recuperare questa stagione della partecipazione a partire dai luoghi di vita delle persone. Credo, però, che il piano nel suo complesso non riesca a fotografare una voglia di cambiare, ma esprima una voglia di tornare a quello che eravamo, con un po’ di greenwashing in più.

Già, questo è il cuore del problema. Ma la democrazia degli abitanti come la definirebbe?

Come uno spazio che riconcepisce la politica come fattore di decisione non discrezionale, ma come servizio per decidere meglio insieme. Ciò significa cambiare la visione della politica. Dal “io sono stato eletto, quindi scelgo per voi” al “io sono stato eletto perché ho la fortuna di avere una formazione, un’educazione, e perché provengo da un partito che mi ha formato in modo da comprendere la complessità e contribuire a trovare soluzioni che non siano banalizzanti – perché il banalizzante non funziona – e, allo stesso tempo, comprensibili e articolate”. Questo è per me la democrazia degli abitanti. È una democrazia che trova il proprio luogo di vita, il proprio punto di partenza, nella partecipazione del cittadino. Punto di partenza non vuol dire punto di arrivo. Vuol dire che è una democrazia che parte dagli abitanti e sa scalare. È come se fosse un “neo-municipalismo” su scala politica, e che poi mette in piedi regioni federali.

Possiamo dire che questa “democrazia degli abitanti” si basa su un livello partecipativo territoriale, dove il territorio è un’unità centrale da prendere in considerazione?

Il territorio va visto come l’unità guida, quella che ti permette di impossessarti dei temi, di capire la complessità, gradualmente, dalla prospettiva quotidiana sino ad una prospettiva più ampia, grazie ad un salto di scala. Ti faccio un esempio stupido: in Portogallo abbiamo la mappa dei bilanci partecipativi più sviluppata di tutta Europa (ne abbiamo alcuni che vedono la partecipazione di 200mila abitanti in una città di 500mila persone, e risultati che sono eccezionali), e alcuni di questi hanno rinunciato ad andare oltre la democrazia del quotidiano. Che è diversa rispetto a quella degli abitanti. Quella del quotidiano è una democrazia che dà un contentino agli abitanti, e non vuole inserirli nella loro visione strategica. Ci sono molte democrazie dove esiste una tendenza a compensare localmente il centralismo autoritario dello Stato – penso per la maggior parte alla Francia, soprattutto ai Conseils de quartier, ma anche in parte ai bilanci partecipativi che ne hanno sostituiti molti. Ma queste restano preda di un “centralismo del pensiero”.

Sulla crisi democratica generale

Ormai si parla da tempo di condizione post-democratica, o di crisi delle democrazie liberali, o, più in generale, di crisi della democrazia. Qual è la sua opinione in proposito?

Esistono sicuramente degli elementi di realtà nella riduzione del numero dei grandi decisori globali: come nella maniera in cui è costruita la decisione dei più grandi in rapporto all’esistenza delle grandi lobbies transnazionali. Sicuramente questo è un problema oggettivo. Ma ce n’è anche uno di deficit democratico legato alle nuove aggregazioni che si stanno costruendo. Le regioni monetarie, come quella africana o il mercosur sudamericano, o l’Ue, che è l’esempio più classico. Ma anche i Trattati, come quelli tra il Canada e il Messico, che sono tutti centrati sull’aspetto solamente economico. Quindi ci sono dei deficit nelle nuove istituzioni che si stanno creando, e ci sono delle tendenze alla concentrazione dei poteri economici e di mercato a cui non si sta reagendo con un aumento delle democrazie di base. Nell’apatia dei cittadini, poi, esiste e pesa molto anche una questione legata alla rappresentanza, ossia un elemento di costruzione sociale del problema. Cioè, come dice bene Pippa Norris in “Democratic deficit”, una parte dell’apatia è conseguenza di elementi positivi dell’evoluzione della società: conseguenza dell’aumento dell’informazione e della scolarizzazione. Perché le persone cominciano a vedere, hanno gli strumenti culturali e informativi per iniziare a vedere della roba che prima era nascosta. Insomma, il problema è complesso nella misura in cui si porta dietro una path dependency, e dipende un po’ dal percorso grazie al quale si sono costruiti i diritti all’educazione e all’informazione nel tempo. E non si è mai pensato che questi diritti andavano a cozzare contro l’autocrazia che stava crescendo nelle democrazie. Per cui, oggi, abbiamo delle democrazie formali, che in realtà non riescono a gestire la complessità del governare in una società dell’informazione plurale e di una cultura in crescita.

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