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Economia circolare in cattedra: il nuovo paradigma è entrato nelle Università italiane?
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Di seguito una mia duplice intervista sul tema pubblicata su Economiacircolare.com

Il ricercatore Emanuele Profumi, collaboratore di EconomiaCircolare.com, affronta il tema attraverso un confronto a tre con Giovanni Marin, economista dell'ambiente all'Università di Urbino e Francesco Vona, economista senior all' OFCE Sciences-Po e docente di economia delle risorse naturali all’Università Ca' Foscari di Venezia

L’economia circolare è entrata nelle Università italiane? Qualsiasi sviluppo dell’economia circolare si deve sostenere anche con l’insegnamento accademico e la ricerca universitaria. Chi meglio di due giovani professori e ricercatori di economia del nostro Paese può rispondere a questa domanda?

Molto diversi tra loro, per carattere e per approccio intellettuale, Giovanni Marin, economista dell’ambiente all’Università di Urbino e Francesco Vona, economista senior all’ OFCE Sciences-Po e docente di economia delle risorse naturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia, hanno accettato di farsi intervistare insieme, grazie a un incontro in rete. Il primo è legato ad un approccio più pragmatico, mentre il secondo ad una riflessione più teorica. Il primo è più attento all’economia ambientale, mentre il secondo è convinto della necessità di integrarla con prospettive di economia ecologica. Intervistati per capire a quale punto sia l’integrazione di una prospettiva ecologica nell’insegnamento dell’economia nel nostro Paese, entrambi si sono ritrovati, però, immediatamente molto d’accordo su alcune idee di fondo.

Cos’è per voi e cosa ne pensate dell’economia circolare?

Giovanni Marin: Parto dalla definizione che diverse generazioni fa se ne dava nella regione della bassa padana: dalle cascine non esce nulla, resta tutto dentro. Il che significa che non ci sono scarti, che poi vanno smaltiti, ma che prima o poi tutto viene usato. Questa potrebbe essere una definizione adeguata, che tra l’altro rispecchia quella attualmente in voga, che si riferisce al mantenere in economia il valore dei materiali. L’idea di economia circolare è oggi un buon cappello sotto il quale possono rientrate tante cose che contribuiscono alla sostenibilità ambientale. Però non credo che sia un tema coerente e buono a prescindere. In generale è un buon termine di riferimento e contribuisce alla sostenibilità, ma ci sono dei paradossi e delle eccezioni. Quando si guarda anche alla sostenibilità sociale ed economica, per esempio, ha delle criticità non da poco. Perché è una economia che può sostituire altri settori economici. Per esempio, se si utilizzano i materiali riciclati tutta la filiera che si basa sull’estrazione e sulla produzione di materiali vergini si riduce e rischia di scomparire. È una strategia che produce dei perdenti e dei vincitori, e chi è perdente non necessariamente si può trasformare in vincitore (per questioni di posizione geografica, competenze dei lavoratori, età, variabili del mercato, etc).

Francesco Vona: Per ovvi motivi darò una definizione più teorica. Sappiamo da Georgescu-Roegen (importante economista e matematico rumeno, generalmente considerato il fondatore dell’economia ecologica, ndr) che la seconda legge della termodinamica è il vero limite alla crescita umana. Perché quando uno trasforma l’energia, da uno stadio di energia disponibile come quella del petrolio e del carbone, ad un altro stadio in cui li bruciamo, siamo in presenza di un processo irreversibile. Per questo arriveremo ad un punto in cui non ci sarà più carbone né petrolio. Non bisogna fare l’errore di pensare che questa legge valga, però, solo per l’energia cosiddetta “non rinnovabile”, perché in realtà vale anche per i materiali. Infatti, dopo aver usato un materiale si può riutilizzare, ma non lo potrai mai fare al 100%. C’è sempre una parte che si perde. Cosa significa? Che il vincolo della seconda legge della termodinamica è valido anche per un’economia circolare. Per esempio, se passiamo dall’energia fossile a quella rinnovabile bisogna sostituire il petrolio con i materiali usati per costruire pannelli solari o le batterie che servono per stoccare l’energia creata (il litio, il cobalto, etc). Anche questi ultimi materiali devono essere riciclati e riutilizzati, e se non viene fatto realizzando percentuali molto alte di riciclaggio (oltre il 90%) torniamo a un problema di scarsità. Al problema della sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale (come le conseguenze che certe scelte hanno sulla diseguaglianza).

Si insegna economia circolare nelle Università italiane? Più in generale, cosa ne pensate dell’insegnamento dell’economia da una prospettiva ecologica nel nostro Paese?

Giovanni Marin: Nel mio insegnamento di economia dell’ambiente e del territorio, rivolto ai futuri geologi, includo qualche concetto di economia circolare e di economia ecologica. Non c’è un corso di economia dell’ambiente per economisti. Più in generale, quello che ho visto è che i corsi di economia dell’ambiente (sia in triennale sia nella specialistica) sono già vicini al punto di vista della sostenibilità ambientale. Le persone che conosco che insegnano economia ambientale in Italia lo fanno per la specialistica, e quindi manca realmente nel panorama più generale. Secondo me dovrebbe essere un corso di base. Anche perché ha delle implicazioni teoriche molto utili anche per la politica economica e per altre prospettive. Rispetto all’economia circolare, invece, ho notato che la si insegna nelle sue componenti tecniche e tecnologiche: nei corsi di ingegneria quando si guarda alla logistica, o in corsi più di taglio aziendale, per esempio relativi alla gestione della qualità, come succede ad Urbino. Sull’economia ecologica devo confessare che, nonostante ne ero un grande fan in passato, oggi non la sostengo molto. L’economia ambientale usa strumenti molto più facili ed è comprensibile per molti economisti, oltre a dare delle indicazioni di policies abbastanza chiare e precise. L’economia ecologica, al contrario, guarda all’economia come ad un sottoinsieme dell’ecologia, e delle scienze in generale, mettendo così al primo posto il raggiungimento degli obiettivi ambientali e ponendo perciò, per esempio, dei vincoli invalicabili rispetto all’utilizzo delle risorse e rispetto alla forte salvaguardia del paesaggio naturale. Quando è tradotto in politiche ambientali ciò risulta molto più complicato da vendere, perché non permette di negoziare. Oppure spinge ad una negoziazione non trasparente. Insomma, l’economia ambientale tradizionale che emette un prezzo, ha il vantaggio di consentire una migliore trattativa tra obiettivi concorrenti (in termini di risorse pubbliche, di perseguimento di obiettivi, etc), anche se spesso al ribasso.

Francesco Vona: Sono in gran parte d’accordo con quanto detto. Mi permetto di integrarlo. Ormai qualche decennio fa esisteva un dibattito critico tra economisti ecologici ed economisti ambientali su questioni di approccio generale e sui limiti che non bisogna oltrepassare. Cioè, l’economia ambientale presuppone che su tutti i problemi che si affrontano ci possano essere delle negoziazioni, tra un obiettivo ambientale e uno non ambientale. Se però hai una prospettiva diversa, dove si afferma che se si supera una certa “soglia” si generano processi irreversibili, come nel caso famoso dei 2 gradi per il cambiamento climatico, ossia se si ragiona in termini di “discontinuità”, allora l’analisi dell’economia ecologica potrebbe essere molto utile, soprattutto per trattare problemi macroeconomici. Invece, per i problemi a livello micro, le persone sembrano comportarsi più come predetto dall’economia ambientale. Faccio un esempio: da una prospettiva di economia ecologica se muore una persona in una centrale a carbone per via dell’inquinamento, anche se quella centrale porta dei soldi alla comunità, siccome la vita umana è incommensurabile rispetto ai soldi che genera la centrale a carbone si deve chiudere. Tuttavia, molti individui che vivono in posti inquinati, come l’Ilva di Taranto, preferiscono lavorare là e morire piuttosto che non lavorare e poi non sapere come sopravvivere. Se parliamo degli studi sui conflitti ambientali dell’economia ecologica, inoltre, hanno sicuramente un valore, ma non sono legati ad un apparato teorico. Mi sembra che sia più una prospettiva di politica ecologica, o di scienze politiche, e meno di economia. Ecco perché, nei miei corsi presento il dibattito tra economisti ecologici ed economisti ambientali: insegno la prospettiva dell’economia ambientale trattata con continui contrappunti critici e teorici che vengono dall’economia ecologica.

Quali sono i temi che in economia dovrebbero essere trattati, e non lo sono, da una prospettiva ecologica? A me sembra, ma è un’impressione superficiale, che ci si muova ancora dentro un paradigma capitalista (una specifica logica della produzione e del consumo) che non consente veramente di trattare la crisi ecologica come si dovrebbe (perché ne è la causa principale).

Giovanni Marin: L’economia, per come viene insegnata, ha un grosso problema. I messaggi finali dei modelli standard economico-ambientali, che indicano la necessità di alcune misure, anche quando a volte vengono considerati gli “effetti soglia” dei processi, nei fatti non vengono applicati a livello politico. All’interno del sistema capitalistico manca un intervento pubblico che la teoria economica classica standard in realtà richiede. E non per questioni distributive o etiche, ma per l’efficienza allocativa di cui parlava Pareto (sociologo ed economista italiano, ndr). È chiaro che è il capitalismo ad essere responsabile dei problemi ambientali che emergono oggi. È però responsabilità della politica non aver messo in campo tutte quelle misure che anche in un sistema capitalistico sono richieste, proprio come da manuale. Una volta applicate tutte le misure richieste, come l’intervento pubblico previsto dalla teoria economica (anche, ma non solo neoclassica), se non si dovesse raggiungere la sostenibilità ambientale, allora sarei convinto al 100% che va cambiato tutto. E poi c’è bisogno di una fortissima consapevolezza dei cittadini, ma questo non ha a che fare con l’economia. Dal punto di vista didattico, e qui rispondo alla tua domanda, l’Agenda 2030 dell’Onu è perfetta: è semplice, riguarda tutti i Paesi del mondo, si orienta in base a prospettive di medio-lungo periodo e mette veramente sul piatto le varie dimensioni della sostenibilità. Per un economista mi sembra fondamentale capire che tutti i corsi di economia standard danno gli strumenti per raggiungere certi tipi di obiettivi di efficienza economica, che sono utili, ma che vanno poi messi nel contesto più ampio di un mondo che non guarda solamente alla dimensione economica, ma anche alla dimensione ambientale, sociale, e all’equità intergenerazionale. L’ottimo sarebbe che si insegnasse economia ambientale a tutti i livelli, con un po di economia ecologica, come materia opzionale e senza approccio ideologico.

Francesco Vona: C’è una tendenza nell’Accademia italiana: l’economia ambientale si sta sempre più staccando dall’economia tradizionale, e sta entrando progressivamente nelle facoltà di scienze ambientali. Ciò ha dei pro e dei contro. Chi vuole studiare l’economia ambientale a partire dalle scienze ambientali lo fa con un approccio più scientifico, anche se paradossalmente gli studenti sono un po carenti sul piano dell’analisi quantitativa e, ovviamente, dei fondamenti dell’economia. Ma potrebbero essere più interessati a questioni più generali, di fondo, filosofiche. Secondo me è importante immaginarci un nuovo tipo di corso di economia ambientale. Poter integrare nell’insegnamento il lato etico, filosofico, politico, ed economico, magari lavorando in gruppo con diversi specialisti, oltre, ovviamente, a insegnare dei corsi standard dove mettere in relazione l’economia ambientale con quella ecologica, come ho spiegato prima. Ad esempio, facendone un vero corso di economia ambientale, che vada al di là dell’analisi costi-benefici e comprenda anche questioni di sostenibilità sociale. Per esempio, nell’analisi costi-benefici includerei l’attenzione sulla qualità del lavoro. In sostanza, sono convinto che all’interno dell’economia main-stream ci sia spazio per integrare prospettive che vengono dall’economia ecologica, come in parte sta già avvenendo. Si dovrebbe pensare a rafforzare contemporaneamente l’aspetto filosofico dell’economia ambientale e l’aspetto analitico-quantitativo dell’economia ecologica. Ma temo che non ci siano molte risorse per farlo, per mancanza di preparazione degli insegnanti. Ciò richiederebbe almeno 10 anni. Sembra molto difficile, ma credo che con una buona progettazione si potrebbe realizzare.

Insomma, voi non fate una distinzione tra insegnamenti main-stream e insegnamenti alternativi, ma siete attenti a come si possa “migliorare il tiro” di ciò che già esiste. Il maggiore problema che vorreste che si risolvesse è quello della povertà dell’insegnamento universitario, giusto?

Francesco Vona: Sì, ma vorrei precisare, però, che purtroppo agli studenti tutto questo non piace: vogliono cose semplici, risultati takeaway, che si portano a casa. Imparare software piuttosto che concetti. Non vogliono pensare. Tutto ciò comporterebbe delle basse valutazioni degli studenti, che non piacerebbero. Questo è il problema. Ecco perché, in fondo, questa prospettiva mi sembra una lotta contro i mulini a vento in questo momento.

Giovanni Marin: Si, hai capito. Per me il problema è invece quello che bisogna essere selettivi quando strutturi un corso, e non tutto può rientrarvi.

Voi sottolineate molto il concetto di “sostenibilità”, che è diverso dalla “decrescita” o dallo “sviluppo”, come mai?
Giovanni Marin: Se uno decide individualmente di consumare meno, va benissimo. Ma se vogliamo applicarla a tutti diventa un atteggiamento “fascista”. Sono approcci molto interessanti, intendiamoci, ma non sono applicabili su larga scala. Tra l’altro, se solo una parte della popolazione vivesse la decrescita rischierebbe di fare un danno agli altri, dal punto di vista economico. Non a caso, chi si occupa di decrescita non vede che la decrescita non è possibile quando siamo ancora in un contesto di crescita. Preferisco, in effetti, l’idea di “sviluppo sostenibile”, che non comporta che ci sia una crescita a tutti i costi. Se serve a sostenere il benessere sociale o al mantenimento della stabilità economica, allora va bene, ma la crescita non è un obiettivo di per sé dentro la prospettiva dello sviluppo sostenibile. Anche dal punto di vista economico “lo sviluppo” non è solo “crescita”. Quest’ultima può aiutare lo sviluppo. Ma lo sviluppo sostenibile è un concetto così ampio che può essere usato per prospettive molto diverse. Per esempio, se uno guarda solo alle future generazioni ma non alle diseguaglianze oggi, si perde un pezzo. Per fare qualcosa di serio bisogna tenere tutte le dimensioni dello sviluppo sostenibile. Il suo limite attuale è che sposa un’ottica molto limitata, che guarda solo al presente e non tiene in conto le future generazioni. Per esempio, il debito prodotto dalla pandemia verrà pagato da chi non c’era e da chi non l’ha chiesto.

Francesco Vona: Le idee vanno definite bene, altrimenti diventano delle scatole nere dove si può mettere qualsiasi cosa. Per definire lo sviluppo sostenibile bisogna chiarire quali sono le dimensioni dello sviluppo che sono rilevanti, e deve essere chiaro che, nel farlo, si sta facendo una scelta politica. Sulla cosiddetta “decrescita felice” non sono critico dal punto di vista dei valori, anzi! Penso che siano molto profondi e rilevanti. Però, diciamolo subito: la terminologia è davvero “infelice”! Parlare di “decrescita”, infatti, significa darsi la zappa sui piedi. Sarebbe meglio cambiare linguaggio. Secondo me, in sostanza, c’è una mancanza politica in chi la sostiene, perché non considera che bisognerebbe educare a quei valori sin da quando uno è piccolo. Bisogna scardinare abitudini nefaste, che poi si radicano nella persona adulta e sono difficili da cambiare ad un certo punto. Il sistema educativo attuale, però, invece di essere un volano dei cambiamenti ecologici mi sembra andare nella direzione opposta.

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