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In una recente intervista a “La Nazione”, Alfonso Maurizio Iacono si è posto la domanda che tutti coloro che hanno una prospettiva critica rispetto all’attuale sistema economico-politico si dovrebbero fare: ma davvero dopo la Pandemia vogliamo ritornare a vivere come prima?!
Una domanda che ne nasconde delle altre implicite, come lo stesso Iacono chiarisce: vogliamo davvero mettere la produzione compulsiva al centro di tutto e continuare con la nostra cultura capitalista e consumista? Non sarebbe meglio ridare valore ad altro, e prima di tutto al senso del tempo che viviamo, individualmente e collettivamente?
Ciò che appare subito sorprendente è che la sua domanda ha qualcosa di rivoluzionario in questo momento, quando invece dovrebbe essere LA domanda ordinaria in una situazione democratica. La politica, infatti, se intesa come chiaro progetto di auto-trasformazione della società, si nutre continuamente di questa domanda. Qualsiasi politica, tra l’altro, lo fa quando non ha reciso definitivamente il suo legame intimo con la democrazia, perché è prima di tutto il potere collettivo ad essere alla base dell’autotrasformazione collettiva. Invece, e cadendo in una specie di apparente groviglio di rimandi, tale domanda è straordinaria perché rivela quanto l’eccezionale pandemia sveli che c’è stato nel tempo un ribaltamento tra l’ordinario e lo straordinario. La mutazione della politica in atto, infatti, può anche essere letta come una normalizzazione di una tendenza che porta alla sua scomparsa.
Ecco perché sottolineare che la situazione di pandemia può essere anche “un’opportunità” per rinascere e migliorarsi, come ha fatto di recente anche Umberto Galimberti, e come alcuni gruppi di estrema sinistra stanno sostenendo in questi giorni, è ancora più vero se pensiamo alla realtà della politica. Sempre che non si ricada, come sta succedendo ancora in questa circostanza, nella tristemente famosa “teoria dei due tempi”: adesso che c’è la pandemia non possiamo avanzare critiche, protestare, ragionare in modo da mettere in discussione la realtà del potere e del governo, non possiamo pensare all’emancipazione umana e politica, perché questo significherebbe essere insensibili all’emergenza e alla bontà delle misure che si stanno prendendo. Non si può, adesso, disturbare l’operato del governo per via del suo lavoro necessario che ci salva la vita. Questo atteggiamento, infatti, è inconsapevolmente frutto non solo di certa tradizione di sinistra e di una certa ipocrita visione riduttiva del cambiamento sociale e politico, ma è parte stessa della tendenza nefasta che ha visto la politica avvicinarsi sempre più velocemente a una pura “gestione dell’esistente” (cosa già denunciata da Rancière qualche decennio fa) e al “potere per il potere” in cui ci siamo ritrovati velocemente soprattutto dal 2001 in poi; le due caratteristiche principali che ne hanno mutato la natura negli ultimi decenni, che hanno radici profonde e lontane nel tempo. Se a questo aggiungiamo che in ogni momento di difficoltà del sistema mondiale neoliberista, come quello che stiamo vivendo, alcuni annunciano la fine certa del capitalismo, siamo davvero davanti a una grottesca nietzscheana vuota ripetizione dello stesso, degna di qualsiasi coazione a ripetere sociale, che ricorda solo quanto è mortifera la riflessione politica attuale a sinistra...poter ripensare la politica in una situazione estrema, dov’è più evidente la sua scomparsa e più urgente la sua rinascita, come l’attuale situazione d’emergenza, significa invece saper cogliere il Kairos, il “momento opportuno”. Lo si deve fare adesso, non quando “saremo usciti dalla Pandemia” come molti ripetono come un mantra.
Anche perché non è affatto detto che se non lo facciamo subito non cadremo dalla padella nella brace, ossia che non si normalizzi il fatto di aver sospeso i diritti democratici e limitato drasticamente le libertà civili. Questo non tanto per rispettare il proverbio “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”, o per rendere onore al famoso “carpe diem”, spesso interpretato a torto come un vezzo dandy, ma perché la storia politica è piena di esempi che “ci ammoniscono” davanti a pericoli di tutti i tipi. In Brasile, solo per fare un esempio, sotto la dittatura militare (‘60-’80) il parlamento, un sistema bipartitico e le elezioni politiche, vennero garantite per quasi tutto il periodo del regime. Tanto che molti ancora pensano e affermano che non si sia trattato di una vera dittatura, ma di una “dittablanda”, ossia di una “dittatura dolce” (cosa completamente senza senso da una prospettiva realmente democratica). Oppure basti pensare che la democrazia cilena è stata bloccata per decenni da una costituzione e da un patto di compromesso con i militari che solo negli ultimi 5 mesi è stato profondamente rimesso in discussione dalla popolazione. In sostanza, quando si perdono libertà, diritti, e pratiche democratiche, non sempre si possono recuperare velocemente, e lo si fa sempre scontando dei costi altissimi.
Come ha sottolineato la filosofa belga Sophie Klimis ragionando sulla nostra condizione generale sotto la pandemia, chi ci assicura che queste stesse misure restrittive non si ripetano anche solo davanti al rischio che ci siano altre epidemie o all’emergenza climatica (problema enorme che è all’ordine del giorno)?
Come possiamo rivendicare una democrazia altra e rigenerata, se non riusciamo oggi, in una situazione dove c’è una vera eliminazione delle possibilità di un controllo dal basso della politica, e in cui la popolazione viene controllata “per il suo bene”, non siamo neanche in grado di denunciare e fermare questa deriva securitaria?
Chi ci può garantire che ciò che non abbiamo avuto la forza di fare sino ad oggi, e che oggi non facciamo, avremo la forza di farlo domani? Direi proprio nessuno. Anche per questo dobbiamo agire un cambiamento adesso, benché, o anzi proprio perché, la situazione è estrema.
Per farlo sarebbe meglio non abbassare la guardia e guardare criticamente al problema principale: l’alternativa che abbiamo tutti sotto gli occhi è che la politica strettamente intesa (parlamento e governo) ragiona e fonda le proprie opinioni e scelte in base ad una logica di guerra, e non sulla base di una visione della giustizia sociale o di principi di giustizia. E i principali media mainstream la accettano in modo ariflessivo e la amplificano continuamente. In questa condizione di emergenza dovrebbe essere ormai evidente a tutti che si sta avanzando grazie all’equazione: pandemia = guerra. Non a caso, questa è una delle maggiori forme di propaganda politica e giornalistica durante questa pandemia per creare uno stato psicologico in cui ci si impone l’obbedienza e la pazienza verso le misure imposte dal governo. Solo così saremmo “davvero responsabili”, ci ripetono continuamente.
Questa obbedienza non solo è sospetta, ma è, invece, del tutto irresponsabile. Abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di muovere critiche all’operato del governo in questa situazione, anche se i nostri strumenti sono più che “spuntati” a causa della drastica riduzione democratica. Ma è chiaro che tutto ciò è valido solo se assumiamo una posizione in cui valorizziamo la democrazia sociale, partecipativa, diretta, e non la pura e semplice democrazia rappresentativa ormai arrivata a uno stadio di mummificazione da tempo. Altrimenti, è sicuramente più coerente pensare: “W il governo, w la quarantena generalizzata e indiscriminata, w la Patria e la Provvidenza!”, e lasciarsi convincere da chi pensa di rappresentare davvero il popolo, magari anche direttamente. Di incarnarlo nella propria persona...
In questa mia riflessione veloce, mi propongo di dimostrare quanto sto sostenendo, non facendo leva sull’esperienza storica, ma usando la riflessione grazie agli spunti di un autorevole filosofo liberale.
Prima però alcune premesse necessarie.

Per capire perché l’unica responsabilità democratica che abbiamo veramente in questa situazione è quella di criticare radicalmente quanto sta avvenendo dal punto di vista politico, ma anche l’accettazione sociale di queste misure, è bene inquadrare velocemente e schematicamente la tendenza che ha portato la politica a sciogliere il legame con la democrazia negli ultimi decenni, e che ci ha portato ad una situazione post-democratica. Non ho la pretesa di essere esaustivo in nessun modo, ma trovo necessario enunciare alcune fondamentali tendenze che abbiamo ereditato, fosse anche solo come una bozza di promemoria a sostegno del ragionamento che sto facendo e per tenere in considerazione la realtà sulla quale si innesta lo “stato di emergenza”:
1) Individualismo e chiusura della popolazione nella sfera privata, l’unica ad essere veramente valorizzata da tutti i punti di vista, che va insieme al conformismo sociale e politico, all’apatia verso la dimensione collettiva, al cinismo, e, in ambito politico, all’accettazione della privatizzazione economica di ogni aspetto dell’esistenza, etc.
2) Rafforzamento delle richieste di soluzioni autoritarie ai problemi sociali e forte semplificazione politica, il che va insieme all’emergere dei partiti populisti.
3) Burocratizzazione della vita collettiva, che accompagna il diffondersi di una mentalità e di costumi poveri dal punto di vista relazionale e umano.
4) Restrizione e rifiuto dell’accoglienza, dell’alterità sociale e politica, e la conseguente paura dell’altro e del disprezzo per la società e per la dimensione collettiva dell’esistenza (anche solo nella semplice forma del “non mi fido di nessuno, di nessuno ti puoi fidare”), con la corrispettiva necessità di investire collettivamente su dei “surrogati” collettivi astratti in cui avere fiducia (per lo più di tipo nazionalistico).
5) Separazione della sfera del governo e della decisione pubblica da quella della volontà e della sovranità popolare, insieme a un indebolimento del controllo dal basso e ad una proliferazione di lobbies (soprattutto economiche) nella sfera strettamente politica.
In sostanza, e come è possibile considerare anche ad un primo sguardo, la tendenza pregressa alla pandemia è la stessa che viene rafforzata dalle misure di emergenza (prima di tutto la quarantena generalizzata che inchioda tutti nella loro condizione privata ma anche l’impossibile controllo dal basso), che non sono qualitativamente diverse dal modo di vivere prima della Pandemia.
Il fatto che i partiti autoritari (nazionalisti e populisti) che si oppongono al governo in Italia, attualmente non abbiano nessuna strategia alternativa e coerente di opposizione, e che non possano contestare nella sostanza i provvedimenti presi, non è che una veloce conferma indiretta di tutto questo. Assolutamente insufficiente, ma pur sempre una conferma.

Oggi, molti, tra liberali e persone democratiche e di sinistra, in Italia, hanno accettato che l’unica soluzione all’emergenza può o deve essere quella di agire senza andare per il sottile, come se fossimo in una guerra, e che i diritti democratici e le libertà civili siano insostenibili in questo tipo di situazioni, come è stato sempre fatto.
Al di là di molte risposte solidali, della riscoperta della socialità (quella che va oltre lo stretto circolo famigliare), dell’importanza della responsabilità reciproca, del senso di comunità, della “banale” constatazione che siamo tutti interconnessi e interdipendenti, il forte sospetto che mi porta a scrivere questo post è che tale situazione non sembra la più diffusa. Spero di sbagliarmi, ma la retorica di guerra ormai accettata dai più rafforza maggiormente la tendenza alla diffidenza, al disprezzo, al “ognuno per sé, Dio per tutti”, e alla convinzione che l’unica fiducia che si può avere, se non possiamo averla per il prossimo, è quella che si deve dare al capo o al governo. Del resto, visto che viviamo una assurda “guerra contro un Virus”, e questo virus è portato non dall’aria, ma dal “prossimo”, dagli altri esseri umani (questo è il motivo della quarantena!), allora è quasi automatico o addirittura “lecito” diffidare, cominciare a vedere “gli untori” e a sentire che il pericolo viene da chi non conosciamo e ci passa accanto…se non in modo cosciente, almeno in modo inconscio...
Per cambiare vita e ripensare la politica, in altre parole, andrebbe fatta subito, adesso, chiarezza su una tendenza che prima individuiamo e prendiamo in seria considerazione e meglio è, perché va affrontata come si deve, e superata: quella di una sfera politica che ha acquisito una logica militare.
Il fatto che le spese militari siano cresciute quasi continuamente dalla fine della “guerra fredda” o che in questa situazione di emergenza non si siano fermate le fabbriche di armi o avere i militari nelle strade, sono solo alcuni “sintomi” di quanto questo mutamento abbia anche delle radici altre, non strettamente politiche, spesso misconosciute o minimizzate nel progressivo ritorno della guerra come dimensione “naturale” della nostra vita collettiva dopo il 2001 (in Italia). Ma non basta denunciare la militarizzazione della società, è bene pensare a quello che ho chiamato “la creazione politica” e trovare delle risorse per farlo in prospettiva, anche mobilitando le molteplici riflessioni ereditate che ci consentono di identificare e comprendere alcune delle coordinate fertili alla nascita di un altro immaginario politico democratico.

Ecco perché, nonostante sia più idealista di quello che lui stesso sia disposto ad accettare, può essere un esercizio fertile ritornare in questa occasione su John Rawls e sulla sua “Una teoria della giustizia”. Il famoso neocontrattualista liberale e di sinistra, difensore di una democrazia costituzionale, è espressione di una tradizione moderna a cui bisogna guardare con interesse, perché continua a sviluppare nella sua opera principale due presupposti di come è stata vista la politica da chi la pensava come una pratica dell’emancipazione umana (come qualcuno continua a fare anche nella contemporaneità): 1) come uno spazio e una pratica capace di armonizzare la volontà individuale con la volontà collettiva; 2) come espressione della giustizia.
Al di là della tenuta del governo italiano (preoccupazione mossa dalla paura di farci governare dalla destra reazionaria), e degli interessi di partito, vorrei porre una serie di considerazioni ai liberali e ai democratici che ritengono importante, adeguata o anche solo tollerabile la retorica che fa dell’emergenza sanitaria una situazione di guerra.
Mi rivolgo a voi, quindi. Se ancora pensate che la politica abbia a che fare principalmente con la giustizia ma avete accettato l’equazione nefasta pandemia=guerra, vi invito caldamente a pensare alle misure d’emergenza solo da questa prospettiva, e a lasciare stare la retorica militaresca che non fa altro che peggiorare la situazione e il problema.
Con Rawls, cercherò di convincervi perché è necessario non confondersi, e non associare giustizia e guerra, e perché è bene scegliere la prima anche in una situazione di emergenza come la nostra.
Per farlo pongo 4 questioni alla vostra attenzione, sulla base della considerazione di partenza che le misure di restrizione prese non sono solo l’effetto di un immaginario politico che accetta che la politica si muova seguendo la logica militare, ma anche del fatto che questa retorica sia strumentale e volta a generare l’obbedienza della cittadinanza per via di una mancanza di base, ossia perché il sistema sanitario nazionale non era e non è minimamente in grado di rispondere all’epidemia, e non si sono volute prendere subito delle misure per provare a rafforzarlo in modo eccezionale, né si sono prese misure di prevenzione e monitoraggio sanitario all’altezza del grave problema sanitario, perché troppo costose (le imposizioni politiche e civili sono anche il frutto di mancanza di coraggio e di analisi del rischio basata sulla logica “costi-benefici”, per dirla in un altro modo).

1) Una questione generale innanzitutto. Rawls scrive (pag.28, Feltrinelli 2008):
“Secondo noi l’oggetto principale della giustizia è la struttura di base della società, o più esattamente il modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. Per istituzioni maggiori intendo la costituzione politica e i principali assetti economici e sociali”.
Alcuni ritengono, interpretando la Costituzione italiana, che essa preveda che sia possibile sacrificare alcuni diritti a scapito di altri, in situazioni eccezionali. Se però non vogliamo cambiare l’organizzazione democratica della società, se vogliamo tentare che essa segua dei principi, una visione, o una prospettiva di giustizia coerente con la democrazia, non dovremmo cercare di fare del tutto per non sacrificare i diritti democratici anche in situazioni di emergenza? Se noi trasformiamo, anche se temporaneamente, i cittadini in sudditi, siamo sicuri di agire in modo da conservare l’orientamento generale alla giustizia democratica? Personalmente, da questa prospettiva, avrei dei seri problemi a rispondere positivamente, tenendo in conto che giustizia per noi significhi anche “rispetto della democrazia”. Basti pensare a quello che lo stesso Rawls ricorda (p. 288):
“Dobbiamo scegliere tra diversi assetti costituzionali in base alla probabilità che hanno di consentire una legislazione giusta ed efficace. Un democratico è una persona convinta che una costituzione democratica sia il miglior modo di rispettare questo criterio”.
Per la stessa ragione che ci suggerisce Rawls rispetto alla costituzione, possiamo aggiungere che un democratico è anche colui o colei che, nel caso si trovi a dover scegliere tra diritti, cerchi di non rinunciare ai diritti democratici di base, come quello di manifestare e di riunirsi. Il governo ha provato a conservarli nella misura del possibile, ha tentato di fare qualcosa in questo senso nelle sue misure d’emergenza? No.

2) Questa osservazione critica è direttamente collegata alla prima questione:
“Il desiderio di agire con giustizia deriva parzialmente dal desiderio di esprimere con maggior pienezza ciò che siamo o possiamo essere (liberi ed eguali)” (p. 252).
Rawls coglie un aspetto centrale della trasformazione politica: la proiezione di quello che vogliamo essere. Noi vogliamo essere sicuramente salvi dal virus, e vogliamo che si salvi il maggior numero di persone possibili, giusto? Ma siamo sicuri che questo desiderio surclassi quello di voler essere democratici, ossia, in questo momento, quello di permettere alla popolazione di avere degli strumenti per esercitare il controllo dal basso e per poter criticare e mettere in discussione il governo con delle manifestazioni pubbliche (ampiamente intese, non per forza i cortei) e, nel caso, anche le sue misure di emergenza? Nel momento in cui ciò avviene, noi ci stiamo già proiettando verso l’accettazione di una priorità che non ha nulla di specificamente democratico. È già la prova che diamo priorità ad altri principi, ossia che siamo disposti a sacrificare quelli democratici. In questo senso il fatto di richiamarsi ai metodi autoritari cinesi è completamente coerente con la priorità di cosa vogliamo che avrà una ripercussione nel futuro. Se questo avvenisse in una situazione saldamente democratica uno potrebbe, forse, anche rischiare l’azzardo. Ma noi siamo in una situazione post-democratica, e il fatto che questo sia il nostro “voler essere” adesso non fa altro che peggiorare la pregressa situazione di progressivo abbandono della prospettiva democratica su cui si innesta l’emergenza sanitaria.

3) Riferendosi ai due principi alla base della concezione della giustizia (eguale libertà e principio di differenza), Rawls scrive (181):
“Infatti, quando la società segue questi principi, il bene di ciascuno fa parte di uno schema di mutuo beneficio, e questa affermazione pubblica nelle istituzioni della condotta di ciascuno individuo accresce la stima che le persone hanno di se stesse. Lo stabilirsi della eguale libertà e il funzionamento del principio di differenza hanno necessariamente effetto”.
Ora, davanti a delle misure di restrizione e di eliminazione egualitaria di alcuni diritti, si potrebbe pensare che si sia rispettato il principio di eguaglianza. Come avviene in effetti in una situazione di guerra, le misure di restrizione sociale e politica hanno l’effetto di rendere tutti “eguali”, ossia di omologare tutti. Tutti allo stesso modo (da qui anche lo stimolo quasi inevitabile a fare crescere lo spirito nazionalista nella popolazione). Eppure, proprio Rawls ci ricorda che da una prospettiva liberale il principio di eguaglianza va considerato in stretta relazione con quello di differenza. Altrimenti non si può raggiungere il mutuo beneficio e il rispetto reciproco. In altre parole, le misure prese dal governo italiano non sono state ponderate, non hanno rispettato la complessità sociale, la differenza tra gruppi sociali, né considerato minimamente la diversa condizione di diversi “gruppi” sociali: imporre delle misure uguali per tutti, come la quarantena generale, non solo non è giusto, ma comporta delle conseguenze proprio a livello di mutuo beneficio e rispetto reciproco. Com’è possibile che non si sia pensato che i diversamente abili, le donne a rischio di violenza domestica, molte diverse categorie di malati mentali, i senza tetto, coloro che condividono spazi angusti con molte altre persone, i migranti, etc etc non dovessero avere dei trattamenti differenziati, di maggior attenzione e minor restrizione, pur all’interno della misura di quarantena? Come avviene soprattutto (ma non solo) quando si sposa una logica militare, si semplifica e si riduce la realtà, impedendo di vedere la complessità che la caratterizza. Questo ha avuto, ha e avrà, purtroppo delle conseguenze altrettanto nefaste a quelle non democratiche ricordate sopra, e peggiora la situazione sociale già grave dell’epidemia e delle diseguaglianze economiche e politiche ereditate.

4) Alcuni di voi potrebbero obiettare che Rawls riflette anche sui limiti e sulle possibilità della disobbedienza civile, e che pone il problema centrale a cui voi rispondete (336): “Il problema reale è in quali circostanze e in quale misura siamo tenuti a rispettare assetti giusti”. Ossia che voi pensate seriamente che siamo in presenza di una situazione in cui, sebbene le misure siano ingiuste, per causa di forza maggiore bisogna rispettarle pur di salvare delle vite umane. Un po' come quando in una situazione estrema si deve decidere chi far sopravvivere e chi far morire...
In effetti, sembra proprio che ci troviamo in una situazione di ingiustizia sociale nelle misure di emergenza, perché siamo in presenza di un eccessivo richiamo al dovere, perché il dovere si afferma nell’eliminazione del diritto, divenendo così un’imposizione. Bobbio, a suo modo un altro “liberale di sinistra”, ci chiarisce in maniera magistrale che dobbiamo assolutamente considerare che i diritti sono l’altra faccia dei doveri, e viceversa. Là dove si rompe questa reciprocità, siamo davanti a una situazione di ingiustizia molto pericolosa. Appunto. Anche dalla prospettiva di Rawls staremmo in una situazione analoga, perché sfido chiunque a dimostrare con argomenti ragionevoli che ci troviamo in una situazione in cui non viene negata l’eguale libertà (e in particolare l’eguale cittadinanza). A meno di non pensare che sia possibile giustificare perversamente l’eliminazione dei diritti democratici in base a dei principi democratici, la vedo dura. Ma, proprio davanti a questa ingiustizia accettata, possiamo fare riferimento allo stesso Rawls, per capire quale problema ci apra l’accettazione dell’ingiustizia nel nostro presente: quando lui scrive che (241) “La libertà può essere limitata solo in nome della libertà stessa”, sostiene implicitamente che ciò non si può fare in nome della sicurezza. Perché? Non semplicemente perché è un kantiano, ma anche perché (233)
“un sistema giuridico è un ordinamento coercitivo di norme pubbliche rivolte a persone razionali, allo scopo di regolare la loro condotta e di fornire la struttura della cooperazione sociale. Nel caso queste norme sono giuste, esse stabiliscono una base per le aspettative legittime. Costituiscono il fondamento su cui poggia la reciproca fiducia delle persone e in base a cui possono avanzare giuste obiezioni quando le loro aspettative non vengono soddisfatte”.
Ossia, prima di tutto, se accettiamo di agire in modo ingiusto in una situazione di emergenza, non stiamo trattando i cittadini come se fossero persone libere, eguali e solidali.
In secondo luogo, quale può essere la conseguenza di questa situazione? Ne vedo velocemente almeno tre:
1) I cittadini si abituano che possono essere trattati in maniera ingiusta dal punto di vista civile e politico, e oggi lo accettano per via di questa emergenza, mentre domani lo potrebbero fare per altre emergenze di tipo diverso (economiche o politiche). Aprendo così la strada a un consenso sociale per futuri regimi autoritari o per vere e proprie dittature, più o meno mascherate;
2) I cittadini non accettano questa situazione e cominciano progressivamente a disobbedire alle leggi di restrizione. Ritengono che il dovere sia un sacrificio ingiusto e fanno quello che possono per rifiutarsi di rispettarle, prolungando così, con alcuni atteggiamenti pericolosi, la pandemia e il dramma che ne consegue. In parte, tra l’altro, questo atteggiamento è uno di quelli che noi viviamo normalmente in Italia, insieme ad altri molto meno nobili dovuti al menefreghismo e alla trasgressione delle regole per via dell’interesse privato.
3) Lo fanno e non lo fanno, generando contemporaneamente le due tendenze, anche se in misura ridotta.
In ogni caso si creerebbero dei presupposti molto pericolosi.
Davanti a queste ipotesi mi sembra evidente che i doveri non possono essere separati dai diritti e non si può chiedere alla popolazione di accettare dei doveri ingiusti senza pagarne le dirette conseguenze in un futuro più o meno lontano.

Insomma, non trovate che stiamo davvero correndo un grave pericolo civile e politico?

Per tutto quello che precede mi sembra più che ragionevole invitarvi a considerare che tollerare delle misure ingiuste o ritenere che sia lecito sopprimere libertà e diritti democratici in una situazione di emergenza, dovrebbe essere condannato anche da una posizione liberaldemocratica, e non solo da una posizione come la mia, in cui si cerca di ripensare radicalmente la politica.

Oppure siamo condannati a ripetere errori politici fatali del passato in cui sistemi liberali si sono progressivamente piegati a partiti e governi autoritari, perché ormai accompagnati da un consenso sociale e da una cultura incline a giustificare la soppressione di libertà e diritti sociali e politici, oltre ad accettare misure che esaltavano la potenza e disprezzavano la nostra complessa fragilità?

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