Versione PDF

Davanti alla barbarie che si sta consumando in Ucraina, da dove cominciare la riflessione critica?

Si potrebbe ricordare come l’ordine mondiale non è mai stato, neanche con la fine della guerra fredda, un ordine “pacifico”, e men che meno, fondato sul principio della Pace. La globalizzazione neoliberista che si è imposta negli anni ‘90 e si è rafforzata con la Guerra al terrorismo dopo l’11 Settembre, è stato un tentativo criminale di imporre un ordine globale guidato dalla potenza militare degli Usa. La Nato è stata rilanciata nel ‘99 proprio per affermare questo nuovo ordine. Si è allargata nell’Est Europa e ha sviluppato una strategia in Asia (India, Giappone, Australia), esattamente in funzione di questo progetto. Ha attivamente aggredito Paesi come la Serbia, e partecipato ad altre guerre di aggressione. La guerra in Ucraina è un momento di passaggio, perché è una “risposta” su questo terreno, da parte di un altro “attore” armato che ha deciso di imporre un’altra prospettiva rispetto all’ordine mondiale, seguendo però la stessa logica (e lo stesso linguaggio mediatico) delle missioni di pace internazionali a cui anche l’Italia ha partecipato attivamente. L’Ucraina ha questa novità storica: è un momento decisivo, un passaggio da questo ordine mondiale a un altro. Bipolare e multipolare allo stesso tempo. Ma sempre incentrato sulla supremazia militare e sulla guerra. Ancora una volta in modo esplicito, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sulla logica di potenza. Ormai lontano dalle prospettive multilaterali intraviste dopo la seconda guerra mondiale, questo nuovo ordine mondiale è cinicamente ritornato ad affermare come buon senso principi e prospettive realiste e imperialiste che hanno portato alle più grandi catastrofi della storia dell’umanità. Stiamo passando dalla “Guerra globale e permanente” dell’ordine neoliberista, ad una “Guerra globale generalizzata” di un ordine pseudo-multipolare segnata dal “ritorno” dell’accettazione pubblica di quello che è sempre stato malcelato e ipocritamente nascosto dopo la fine del mondo bipolare: il dominio e la potenza regolano i rapporti internazionali. Questo contesto generale sarebbe da considerare come il luogo dove capire l’escalation della guerra in Ucraina e il problema atroce di farla finire il prima possibile.

Si potrebbe, quindi, anche ricordare che ogni guerra viene preparata, ha una sua “storia”, questa famosa “escalation”, e non la conseguenza di una decisione improvvisa o di un pazzo (per quanto scellerata sia l’invasione armata). La guerra in Ucraina non fa eccezione.
Possiamo rintracciare l’origine dell’escalation sin dal 2004-5, quando il Paese si è radicalmente diviso sull’orizzonte geopolitico generale e si è innescato un tentativo di trasformazione politica che rivendicava l’introduzione di misure democratiche nel sistema statale. Quando la scelta di svincolarsi politicamente da Mosca ed entrare nell’Ue, nella sua prospettiva liberal-democratica, è cresciuta nello scontro e nella repressione movimenti sociali vs regime filo-russo, si è ritrovata prigioniera, suo malgrado, della logica violenta, dell’aut aut, perché nelle manifestazioni del 2013-4 si sono fatti strada gruppi reazionari e conservatori, se non proprio neofascisti, che hanno imposto la linea a quel movimento e operato nell’immaginario collettivo con più “efficacia” dei movimenti liberal-democratici, che non hanno saputo riconoscere in quei gruppi degli avversari e non degli alleati. In un contesto dove, come in Russia, il potere economico era in mano ad una cricca di oligarchi molto influenti sulle scelte politiche generali, l’Ucraina post-maidan non ha sposato una prospettiva di liberazione democratica, ma ha piegato quest’ultima all’affermazione dell’indipendenza della Patria dal giogo russo. Come è capitato praticamente sempre nella Storia, poiché l’immaginario nazionalista ha prevalso e si è affermato all’interno dell’Ucraina, ciò ha portato ad una trasformazione del conflitto, inizialmente democratico, in qualcosa che è profondamente antitetico alla democrazia. Lo abbiamo visto anche in altri contesti culturali, dopo le primavere arabe del 2011. Questo è uno dei motivi principali dell’escalation. Interno all’Ucraina.
Mentre in Russia, come aveva già visto Castoriadis negli anni ‘80 (Devant la guerre), l’immaginario vivo, più investito da parte della popolazione, e che informa ancora quella società, è quello che emerge con la fine dell’Urss, ossia l’immaginario imperialista della grande Russia, incentrato sull’apparato militare industriale, sull’Esercito. Anche la costruzione di un regime antidemocratico in Russia ha una sua lunga storia, e Putin non l’ha mai nascosta. Al contrario. L’ha sempre rivendicata apertamente. Le leggi speciali contro la libertà di espressione, di manifestazione e di organizzazione in quel Paese sono almeno del 2006 (NGO law), poi rafforzate nel 2012 (Foreing Agent Law). Queste leggi e altre misure per reprimere e violentare la libertà e l’autorganizzazione della società civile rispetto al governo e lo Stato, prima ancora di quella contro le fake news del 5 Marzo del 2020 che sancisce una definitiva affermazione della censura di Stato, non sono state minimamente considerate da chi oggi si oppone ipocritamente all’invasione russa. La situazione in Russia e il riconoscimento internazionale del governo Putin, sono un altro elemento dell’escalation. Esterno all’Ucraina.
Come si è potuto pensare in questi anni che la Russia fosse guidata e organizzata come uno Stato che avrebbe rispettato i suoi vicini e qualsiasi prospettiva liberal-democratica? Ma si sa, gli affari sono affari. Il fatto di non aver tenuto conto di questa situazione da parte europea in questi decenni, di cosa significa per Putin e per la Russia imperialista considerare come propri anche altri Stati vicini, o di averlo minimizzato, o peggio deriso, è quanto meno una grave cecità. Se non proprio una chiara ammissione di colpevolezza. Comprendere il punto di vista di Putin sarebbe dovuto essere un dovere, e invece….andava compreso, per poter agire con intelligenza e con una strategia politica, per capire come fare a convivere con una tale realtà politica, pericolosa per qualsiasi prospettiva sinceramente democratica. E il sospetto di non averlo fatto scientemente diventa certezza, quando, dopo il 2014, la Nato e gli Usa entrano direttamente in azione per sostenere la posizione nazionalista ucraina, e inizia una vera e propria guerra civile. La Nato ha fornito mezzi, addestramento e fatto esercitazioni in un Paese che non era, e non è, membro dell’Alleanza. Perché? Perché non è un’alleanza “difensiva”, ma un’alleanza con una chiara prospettiva imperialista, guidata da un progetto sull’ordine mondiale promosso dagli Usa. Quel sostegno militare ai nazionalisti ucraini è parte dell’escalation che porta all’invasione russa. Il progetto imperialista russo, in sostanza, si è confrontato con un altro progetto imperialista. E’ su questa base che Putin decide l’invasione, seguendo la tipica logica di potenza che aveva già usato in passato (dalla cecenia in poi). Insomma, sono 8 anni che va avanti questo conflitto armato in Ucraina, sono loro che hanno portato all’invasione. E il risultato, prima dell’invasione, sono stati 13 mila morti (fino al 2021). Come ho accennato sopra, sono la Nato e gli Usa ad essere gli altri attori principali di questa guerra, oltre la Russia di Putin. Sta avvenendo una guerra per procura, come all’epoca della guerra fredda. La posizione complice e irresponsabile dell’Ue è un altro elemento dell’escalation. Il che significa che il ruolo dell’Ue in questa vicenda è parte fondamentale del problema dell’escalation, prima dell’invasione.
Insomma, ogni attore di questa triste e orrenda storia ha responsabilità diverse nelle diverse tappe del processo di recrudescenza e allargamento del conflitto militare (Usa, Nato, Ue, Russia, Ucraina, Movimenti nazionalisti, Separatisti, etc). La principale e più recente è certamente l’invasione russa, con tutto quello che comporta. Ma la guerra è precedente, nasce come guerra civile, ed è il luogo di un “piccolo” scenario di scontro, una tappa, di due progetti imperialisti antitetici su scala globale: è un sistema complesso di relazioni che vengono segnate da un processo di radicalizzazione delle posizioni in base ad un progetto di dominio, per questo segue fedelmente la logica aut aut (o la categoria schmittiana di amico-nemico). Il caso dell’Ucraina non è un’eccezione. E chi non riesce a cogliere queste due “semplici” verità storico-politiche, per cercare di liberarsene, è perché condivide quella logica e quel progetto, in qualche modo. Volendo oppure no. Chi riduce l’analisi della guerra a visioni politiche di opposizione “noi”/“loro”, è parte del problema che vorrebbe risolvere.

In terzo luogo, sarebbe il caso di ricordare, almeno, che le attuali guerre nel mondo sono diverse, in alcune delle quali l’Italia ha una sua implicazione diretta (in Yemen): Siria, Kurdistan, Palestina-Israele, Armenia, Nigeria, Burkina Faso, Azerbaijan; e che in tutte queste guerre incombe un processo politico-economico di aumento del riarmo generalizzato che, con pazienza e analisi, il SIPRI, attesta ogni anno (https://sipri.org/research/armament-and-disarmament/arms-and-military-ex...). Dal 1988, in cui la spesa militare globale era di poco oltre i 1500 bilioni di dollari, siamo arrivati progressivamente, soprattutto a partire dal 1999, ad una spesa di quasi 2000 bilioni di dollari. In percentuale, tra il 2019 e il 2020, è aumentato il 2,6% della spesa militare nel mondo. Gli Usa e la Cina, che guidano la nuova contrapposizione del nuovo ordine mondiale, ovviamente, fanno la parte del leone (il 39% della spesa complessiva è Usa e il 13% è cinese). Questo sarebbe fondamentale, quindi, per capire che siamo in presenza di una generalizzata corsa al riarmo mondiale, ormai da decenni, e non solo davanti alla crescente spesa militari delle principali potenze. Questo mercato, va notato, è molto legato anche ad imprese transnazionali private, e non solo ad un modello di produzione legato agli Stati e agli apparati statali del complesso militare industriale. Per esempio, solo nel 2019, su un totale di di 361 bilioni di dollari sviluppatosi nel mercato delle armi mondiale, 11, 1 miliardi di dollari sono andati all’italiana “Leonardo”. Neanche gli ultimi anni di Pandemia hanno impedito che il trend continuasse. Il governo italiano, e non solo, ha considerato le fabbriche di armi nostrane tra quelle unità produttive necessarie che non avrebbero dovuto subire restrizioni produttive legate alle misure anticovid. Questo significa che tanto la globalizzazione neoliberista, quanto un ordine mondiale geopolitico, si nutrono del mercato delle armi e sono sostenute dal complesso militare industriale. Nulla cambia per questo come per altri mercati. La nostra economia (italiana, europea, mondiale), in altre parole, risente profondamente di questo cancro economico, politico, civile, umano e culturale che è il sistema industriale militare, nazionale e mondiale. Per rispettare il principio di realtà, e capire che i rapporti di forza sono anche espressione del potere economico, e non solo della forza bruta militare, bisogna mettere l’accento su quanto pesano gli interessi di chi vuole la guerra, di chi difende questo mercato florido, di chi ha tutto l’interesse degli sciacalli nel crescere, a livello di arricchimento economico e di aumento del potere politico. Chi ci guadagna con questa guerra? E’ ancora una domanda fondamentale e un ambito fondamentale della guerra da chiarire, per capire come farla finire il prima possibile in Ucraina oggi.

Queste tre condizioni minime, necessarie per comprendere cosa sta succedendo, insieme a quella nucleare di cui invece si parla diffusamente (e come potrebbe essere il contrario?!), che qui ho appena accennato (e che non ho la pretesa di esaurire in questo modo), sarebbero dovute irrompere nell’opinione pubblica italiana (e non solo), e invece sono scientemente tenute nascoste. Anzi, là dove emergono, vengono immediatamente rigettate a livello giornalistico e televisivo. La propaganda di guerra in Italia e in Occidente, a differenza di quello che accade in Russia, non è il frutto brutale della censura autoritaria e della violenta repressione mossa dal governo, ma sono il frutto di un sistema di omologazione e di conformismo mediatico già visto all’opera in modo sconvolgente durante la Pandemia per giustificare le misure sociali ed economiche prese in sede di governo, anche a livello europeo. La nostra propaganda è diversa, ma è pur sempre tale. E’ propaganda conformista. È voluta direttamente dai giornalisti, da parte di chi, invece di cercare di capire i fenomeni di cronaca, fanno della cronaca spicciola in preda a sentimenti di rigetto privi di profondità e prospettiva, legati alla distinzione assoluta tra i buoni e i cattivi, l'unico strumento di comprensione della realtà. Impendendo, così, di poterla cogliere anche solo minimamente, nella sua complessità. Piatti e appiattiti davanti alla vittimizzazione della realtà e alla colpevolizzazione dell'altro, del mostro, che ci fa stare bene, e ci fa sentire dalla parte della ragione e del bene, fanno diventare la cronaca una crociata a-critica contro il nemico russo. Un moralismo manicheo guida l’opinione pubblica organizzata. E questo sentimento viene non solo largamente rispettato, ma è quasi intoccabile nell’ordine mediatico. Chi lo mette in discussione, anche solo indirettamente, viene mortificato, attaccato, sminuito, ridicolizzato, etc. Eppure, è proprio un sentimento e una prospettiva violenta, antipolitica, contraria alla capacità di comprensione della realtà. E’ il sentimento alla base del fenomeno populista. Antidemocratico, in ultima istanza.
Inoltre, anni di aumento della violenza sociale e culturale che si sono diffuse anche nel nostro Paese hanno ristretto la capacità dell’opinione pubblica organizzata di denunciare e di opporsi alla cultura di guerra e alla violenta giustificazione della guerra come strumento di risoluzione dei problemi (e non solo dei conflitti) sociali e politici internazionali. La normalizzazione della violenza e della guerra vengono da lontano. La nostra cultura se n’è nutrita, e i media e i giornalisti che la fanno vivere, sono a loro volta il prodotto di questa cultura. Come in un circolo vizioso, infernale. Da quando abbiamo accettato i militari nelle strade delle nostre città? Tanti anni ormai. Si diceva che i militari avrebbero aiutato la scarsa presenza delle forze dell’ordine sul territorio. Falso. Non avrebbero potuto farlo, e non l’hanno fatto. Perché non hanno mai avuto il potere legale per farlo. Sono stati l'affermazione di un simbolo, nel nostro immaginario collettivo. La loro accettazione come parte dell'organizzazione civile, sociale. Amici nelle strade.

Questo per dire che le tre condizioni fondamentali per comprendere cosa sta accadendo in Ucraina non possono trovare il loro giusto posto nell’opinione pubblica diffusa, ma restano, purtroppo, tema e problemi centrali per la parte della società critica che è tornata a manifestare in modo importante anche in Italia l'opposizione alla guerra e al coinvolgimento militare dell'Italia e dell'Europa.
Perciò il contributo che penso sia importante dare dalla posizione filosofico-politica che sostengo è legata alle questioni che emergono immediatamente quando finalmente siamo in grado di affrontare il problema di come fare finire la guerra in base a questi quattro fenomeni:
1) Nuovo ordine mondiale
2) Escalation militare e logica di potenza che sostiene la guerra
3) Aumento e rafforzamento del mercato internazionale delle armi
4) Instaurazione di una cultura bellicista e di un’opinione pubblica che normalizza la guerra

1) In questo nuovo ordine mondiale, qual è il ruolo dell’Europa? Ad oggi siamo in balia di una guerra voluta da Nato/Usa, da un parte, e dalla Russia dall’altra. E’ del tutto evidente che l’Europa ha tutto da perdere da questa guerra, da ogni punto di vista (economico, militare, culturale, etc). Ma il problema non è di utilità. Il problema che apre questa guerra è di Progetto. E’ un problema di orientamento e di individuazione collettiva. Di sé. L’Europa ha preso e continua a prendere posizioni politiche (come le sanzioni e l’invio di armi) che ne mettono radicalmente in discussione la stessa ragione di essere. Il “peccato originale” dell’Ue, il fatto che si sia posta come potenza economica mondiale all’interno del paradigma neoliberista, benché cercando di stemperarlo o di “civilizzarlo” (a volte), non può nascondere l’importanza di un’Unione che nasce per superare la possibilità della guerra e per affermare i diritti umani e lo Stato di diritto. Anche questo è stata ed è l’Ue. Nonostante le mille contraddizioni. Non stiamo parlando di “un’Europa di pace”, che dovrebbe essere fondata sulla Cooperazione, il benessere sociale diffuso, la sicurezza dei diritti e del soddisfacimento dei bisogni di base, del rispetto delle diversità culturali, di una riconversione ecologica profonda dell’economia, dell’affermazione del commercio equo come paradigma degli scambi economici, etc. Stiamo parlando di un’Europa mercantile. Centrata sull’euro e non sullo sviluppo e l’unione di forme di partecipazione politica diffusa in base alla prospettiva della democrazia sociale. Eppure, la stessa Europa conserva ancora queste possibilità: la sua società civile organizzata esprime queste richieste e necessità, in diverse forme e modi, e da tempo. L’Europa accoglie i due movimenti di trasformazione più rilevanti degli ultimi decenni (femminismo ed ecologismo), e ci fa i conti. Ci dialoga. L’Europa è contraddittoriamente legata anche ad un tentativo di uscire dalla condizione post-democratica in cui versa. Diversi sono i movimenti e i gruppi che hanno levato l’esigenza di ripensare la democrazia liberale, indicando la democrazia partecipata come una sua possibile evoluzione virtuosa. Proprio davanti alla nuova configurazione mondiale e a come cambia il ruolo della guerra per risolvere le controversie internazionali, l’Ue potrebbe, dovrebbe, interrogarsi sulla sua natura, sul suo progetto costitutivo. Le sue attuali scelte scellerate stanno evitando di considerare che è il Progetto europeo ad essere messo in profonda discussione con questa guerra, e non la sua difesa, come spesso si sente dire dalla propaganda nostrana. Questo è all’odg dal punto di vista più generale, per noi che viviamo nell’Ue. Come tutti quei momenti che possono essere "istituenti", dovremmo avere la lucidità sufficiente per porre il vero problema: che Ue vogliamo? E’ solo così che potremmo prendere posizione contro la proposta di un esercito comune europeo di tipo tradizionale, piuttosto che sostenere un esercito europeo popolare e nonviolento. Ciò che è in gioco in Ucraina non è la difesa delle democrazie liberali, in poche parole, ma la possibilità di ripensare e ricreare una società democratica. Se continueremo a ignorare la crisi democratica e ad appiattirci su posizioni imperialiste Nato/Usa, faremmo solo quello che Putin ha cercato di fare negli ultimi decenni, a cui anche gli Usa aspirano: dissolvere l’Ue come attore politico ed economico mondiale ancora legato a istituzioni e principi liberal-democratici, e renderlo dipendente da un nuovo schema bipolare mentre il processo di dissoluzione democratica continuerà inesorabile. Russia e Usa sono dei buoni compagni di viaggio, in questo senso. Hanno lo stesso obiettivo imperialista rispetto all'Europa.

2) Per arrivare a rinnovare il proprio progetto di società, l’Ue dovrebbe immediatamente capire un’alternativa che negli ultimi decenni il movimento pacifista, e in particolare la sua anima nonviolenta, ha chiarito in modo inequivocabile: l’alternativa alla guerra è la politica. Allontanarsi drasticamente dalla visione che vede nella politica la guerra con altri mezzi e viceversa. La politica ha una logica, degli obiettivi e degli strumenti, che sono alternativi a quelli della guerra. Quando la politica rinuncia ad affermare la sua profonda autonomia dalla guerra, entra in una spirale di auto-dissoluzione. Nella storia dell'umanità ne abbiamo di esempi. Se l’Ue vuole e può sviluppare un progetto alternativo a quello del nuovo ordine mondiale della guerra generalizzata, allora deve riscoprire l’insegnamento dei recenti movimenti pacifisti e della cultura e della prospettiva nonviolenta. Non ha altra scelta, se vuole davvero ritrovare la vocazione originaria e difendere una sua pretesa eccezionalità democratica nel panorama globale. Il che significa che deve ripudiare la logica di potenza e l’aut aut imposto dalla attuale condizione di guerra e dai progetti di dominio di Russia e Nato/Usa. Altro che evitare di mandare le armi. Questo sarebbe il minimo. Dovrebbe affermare un’altra idea di politica, un altro progetto di società politica e democratica, capendo che nessuna cultura politica può reggersi a lungo senza garantire la totale estraneità alla logica di guerra e a qualsiasi forma di violenza collettiva. La nonviolenza e la politica, in quanto democratiche, sono alternative all’esclusione, alla sovraffazione, al dominio largamente inteso. Ciò comporterebbe che l’Ue cominciasse a spolverare le indicazioni di Gene Sharp (https://www.chiarelettere.it/libro/come-abbattere-un-regime-gene-sharp-9...), per opporsi alla autocrazia russa capitanata da Putin, e dovrebbe sviluppare forme di sostegno economico e politico molto importanti per sostenere le diverse espressioni popolari della nonoviolenza in Ucraina. Come è stato certificato, per esempio, la maggior parte degli ucraini, prima dell’invasione, erano più favorevoli a forme di resistenza nonviolenta, piuttosto che all’eroica difesa armata, che altro non fa che prolungare il conflitto armato e aumentare distruzione e sofferenza (https://sbilanciamoci.info/i-pacifisti-e-lucraina-le-alternative-alla-gu...). Molti ucraini, poi, stanno rispondendo all'invasione con forme di resistenza popolare nonviolenta. L'Europa deve aiutarli e sostenerli in tutti i modi possibili. Molte sono le proposte che l’Ue e i suoi governi potrebbero assumere in questo senso, perché molte sono le iniziative che il movimento pacifista e nonviolento sta avanzando in queste settimane (e da anni) per affrontare il disastro spaventoso che è stato generato e da cui bisogna uscire il prima possibile e in condizioni meno distruttive possibili (https://serenoregis.org/2022/03/01/resistenza-civile-in-ucraina-unarma-s...). In questo senso potrebbe e dovrebbe porsi come alternativa interna ed esterna a qualsiasi “politica di potenza”, generando speranza in quelle popolazioni e in quelle persone che, nel mondo, stanno alla ricerca di un mondo in cui si può convivere, non dilaniato da poteri disumani, spregevoli e spregiudicati.

3) Non basta affermare, seppur con rinnovata certezza, che la prima vittima della guerra è la verità. La prima vittima della guerra è la politica. E con questa, la giustizia. Le teorie della guerra giusta, come anche le recenti posizioni a favore della resistenza armata che si rifanno ad un non bene identificato senso di giustizia, sono in realtà posizioni pericolose che impediscono di capire e di vedere che nella guerra viene meno proprio la giustizia. Sia i suoi principi, sia la sua manifestazione concreta. A meno di non pensare alla giustizia come vendetta, o come legge del taglione, o come punizione, o come affermazione assoluta della ragione, allora si dovrebbe capire come nella guerra non è possibile ricercare la giustizia, né affermarla in qualche modo. Neanche quando si tratta di difendersi, purtroppo. La giustizia ha bisogno della compartecipazione con il nostro “avversario” provvisorio, ha bisogno di tener presente in sé una pluralità complessa di realtà, che semplicemente scompare con la semplificazione grottesca e idiota della condizione di guerra. La giustizia e la verità sono la linfa della trasformazione filosofico-politica di cui l’Europa avrebbe bisogno per ripensare al proprio ruolo nel Mondo, per ripensare alla propria visione di sé, e prendere finalmente una posizione coerente e coraggiosa nei confronti della guerra in Ucraina. Anche perché la ricerca di verità e giustizia, come anche nel caso della pandemia, apre a questioni centrali per l’autorappresentazione della società. Con la pandemia si è aperta (per poi richiudersi velocemente purtroppo) la questione del rapporto tra libertà e sicurezza. Dato che con la guerra si apre di nuovo la questione su come vogliamo organizzare, interpretare e vivere la violenza e la nonviolenza nelle nostre società, siamo di fronte ad un momento profondo e possibilmente istituente. E’ anche questo che è in gioco con questa guerra “istituente” del nuovo ordine mondiale. La guerra e la politica di potenza impediscono di andare alla ricerca di verità e di giustizia, da sempre, e danno una risposta univoca e assoluta alla primazia della violenza sulla nonviolenza come principio di organizzazione sociale. Anche oggi. Affermano perentoriamente la distinzione tra buoni e cattivi e scavano un solco di odio nelle profondità del tessuto sociale. Svuotare gli arsenali, trasformare le nostre economie in economie ecologiche e di pace, è impossibile senza un ritorno della trasformazione filosofico-politica portata dai movimenti popolari per la pace, e dagli altri importanti movimenti contemporanei. Ecco perché nella Ue la prima cosa che va fatta, è sostenere, rafforzare, diffondere, generalizzare, i movimenti pacifisti e nonviolenti. Non possiamo aspettarci, purtroppo, da nessun governo europeo in questo momento, che essi assumano l’esigenza di riattivare percorsi di ricerca, di verità e di giustizia, in grado di smontare pezzo per pezzo la politica di potenza, il sistema militare industriale e la propaganda mediatica che hanno avvelenato da tempo le nostre società e che ci stanno imponendo un presente miserabile e un futuro assurdo e quasi suicida. Nessun governo in questo momento, così come pochi partiti politici, sono in grado di riattivare un percorso di trasformazione politica profonda. Di opporre la politica, come ricerca della giustizia sociale, alla guerra, come affermazione del dominio e del bene assoluto e manicheo. La corsa agli armamenti e l’accettazione di una politica di potenza, anche da parte europea, ci impongono di considerare che, ad oggi, la condizione postdemocratica europea e quella autocratica e autoritaria russa non costituiscono davvero delle “alternative di civiltà” nell’ambito della globalizzazione capitalista, bensì variazioni di una matrice comune. Ecco perché questa auspicabile trasformazione filosofico-politica dovrebbe essere un modo non solo per rinnovare il Progetto europeo e affrontare la condizione post-democratica in cui versa (ed in cui è in parte nato), ma anche per liberare e rafforzare i movimenti della società civile russa, che stanno lottando in tutti i modi per rimanere attivi e mettere in discussione il potere devastante di Putin, degli oligarchi e delle mafie che lo sostengono. La concentrazione della ricchezza, la corruzione endemica, la privatizzazione della vita, la precarizzazione delle condizioni di vita, l’eliminazione della sfera pubblica e la sua sostituzione con un apparato di controllo sociale capillare, la repressione politica e la censura mediatica, etc., seppur con gradi diversi e in forme diverse, sono tratti comuni alle diverse realtà globali. Anche all’Europa.

4) Tutto ciò comporta, però, che il movimento pacifista sia consapevole del proprio portato storico-politico. Non basta più affermare la propria differenza e la bontà delle proprie posizioni. Bisogna che si assuma il ruolo che la situazione consente, che capisca che porre la questione della politica come nonviolenza significa rivoluzionare le nostre società, e non solo rispondere immediatamente all’invasione russa. Alfiere del processo di trasformazione filosofico-politica che potrebbe rimettere in discussione l’autorappresentazione europea e il suo stato di minorità nei confronti della Nato/Usa e del nuovo ordine mondiale, il neorinato movimento pacifista ha delle potenzialità concrete di primo piano. Per fare questo, però, ha bisogno di sviluppare una strategia culturale e mediatica imponente contro le letture realiste della politica e della guerra (in Italia capitanate dalla rivista Limes), tutte schiacciate sulla geopolitica dell’esistente, e, in fondo, rispettose di una supposta “naturalità” della politica di potenza e delle prospettive imperialiste. Il realismo è la santificazione dell’impossibilità di ragionare ed agire sulla base di nuovi modi vivere e di fare essere di una politica democratica, in particolare di una politica fondamentalmente altra dalla guerra. Il movimento per la pace in Italia, come negli altri Paesi europei e non solo, dovrebbe fare un salto di qualità, e riconoscere che dal 2001 lo sguardo nonviolento che attraversa i movimenti di alternativa di società del pianeta, conserva una pretesa all’altezza dei suoi ideali e delle sue aspirazioni: cambiare il mondo, cambiando la natura del potere. Questo significa che si deve allargare e approfondire nella critica e nel processo di trasformazione, per mettere la guerra fuori dalla Storia. O meglio, per cominciare a creare uno spazio planetario dove la nonviolenza politica o la politica nonviolenta siano centrali per l’organizzazione della società. Portando avanti il progetto di un altro mondo “possibile e necessario” che, in questi anni, è scomparso dai radar mediatici ma non dall’immaginario politico dei movimenti globali e regionali di trasformazione democratica. Altrimenti non sarebbero scese migliaia di persone a manifestare contro l’invasione, dopo il 24 Febbraio.

Accesso utente

Navigazione

Utenti on-line

Attualmente ci sono 0 utenti collegati.