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Ormai vent'anni fa ebbi la fortuna e l'onore di organizzare a Roma un workshop di Johan Galtung con un gruppo di amici e attivisti universitari con cui avevo fatto un percorso di movimento davvero importante, il "Cantiere per la pace". Avevo già iniziato da tempo le mie letture su Aldo Capitini, ed ero incuriosito da quello che si diceva in certi ambienti di questo strano "Gandhi contemporaneo" di origine norvegese. Il seminario sul metodo Trancend, e poi un paio di interviste che gli feci in due momenti diversi (una sicuramente pubblicata su "La nuova ecologia" e l'altra, mi sembra, su "Carta". Una sicuramente sulla guerra in Iraq, mi sembra l'altra sul nuovo ordine mondiale dopo l'11 Settembre. Se non ricordo male), costituiscono un bagaglio di esperienza che non dimentichero'. Galtung è stato un incontro che ha sicuramente segnato la mia ricerca successiva, sino ad oggi. Umanamente ricordo quanto mi incuriosisse la sua buffa figura, che pero' sapeva bene come essere contemporaneamente autorevole. Affabile, serio e giocoso, pungente e mai scontato. Mi ricordo che, dopo quel seminario così illuminante e così lontano dalle categorie di pensiero che sposavo in quegli anni di movimento così importanti contro la globalizzazione neoliberista, gli chiesi quali libri avrei dovuto leggere per capire le basi del suo pensiero, e lui, senza pensarci un attimo, mi indico' quelli che credo, in effetti e con il senno di poi, debbano essere considerati la base di un pensiero che si è espresso e sviluppato lungo 96 libri e oltre 1700 saggi brevi (articoli e capitoli): "Pace con mezzi pacifici" e "I diritti umani in un'altra chiave".
Generalmente riconosciuto come il "Fondatore della Peace Research", ovvero degli attuali studi sulla pace, Galtung ha ricevuto nel 1987 il "Right Livelihood Award", Nobel per la Pace alternativo, ed ha insegnato in molte università del globo, lasciando un patrimonio inestimabile di ricerche, metodi e indicazioni su cosa dobbiamo intendere per Pace, che sicuramente hanno contribuito a cambiarne il senso e a comprendere meglio come ci si possa arrivare superando il "ciclo della violenza" (e le dimensioni dell'escalation e della deescalation). Di cui molti si riempiono la bocca, ancora oggi davanti all'immane tragedia di Gaza, senza realmente cogliere gli aspetti rilevanti di questa verità storico-antropologica di cui Galtung è stato probabilmente il maggiore studioso di tutti i tempi. Se davvero volessimo comprendere come fermare l'attuale allargamento del conflitto in Ucraina e in Palestina-Israele, per esempio, basterebbe umilmente cercare di assumere l'insegnamento di Galtung in merito. Se poi volessimo avere qualche possibilità di risolvere questa catastrofe, aiuterebbero moltissimo, sicuramente, anche le sue ormai antiche idee su come uscire dal pantano decennale ed infernale del genocidio e dell'apartheid in Palestina.

Qualche anno fa, poi, ho avuto la fortuna di insegnare a grandi linee proprio quel metodo che mi aveva tanto colpito durante gli anni del tentativo di superare il nuovo ordine mondiale neoliberista (ancora vigente, nonostante la nuova riconfigurazione geopolitica bipolare e l'emergere impetuoso dei nazionalismi ovunque nel mondo) e l'ingiustizia profonda su cui si erge e che riproduce. Ho insegnato "introduzione ai peace studies" e "Storia della pace in epoca contemporanea" all'Università di Pisa, dal 2019 al 2022, e il suo pensiero non poteva che essere al cuore di questi due insegnamenti (soprattutto del primo). In quegli anni ho capito che nessun pensiero contemporaneo (e futuro) davvero rilevante sulla violenza e sulla nonviolenza puo' fare a meno di confrontarsi con quanto pensava Galtung del conflitto e della sua trasformazione (da violento a nonviolento). La sua teoria del conflitto non è una teoria tra le altre, perché coglie alcuni aspetti di come il potere e la violenza si radicano nelle relazioni umane a diversi livelli. Nessuno che sia onesto intellettualmente e che voglia comprendere, definire, o trattare l'ambiguo e scivoloso terreno della violenza e della nonviolenza, puo' seriamente ignorare, minimizzare o fare a meno coscientemente delle tesi di Galtung. La sua grande esperienza e riflessione sui conflitti, violenti e non, ci consegna infatti una delle teorie più articolate e convincenti su cosa dobbiamo considerare violenza nei diversi livelli dell'esistenza. E quindi anche di cosa si debba intendere per nonviolenza. Questione che già Gandhi, e poi Capitini, si posero come una delle più rilevanti per la vita umana, e lungo tutta la loro esistenza. Galtung, per dirlo velocemente, riesce a dare delle risposte su come si radica la violenza a livello culturale, per esempio, che sono di estrema attualità ed estremamente coerenti per chiunque tenga presente la dimensione magmatica dell'immaginario sociale. Oppure lega a doppio vincolo la nonviolenza con una prospettiva creativa di quanto è comune, dal significato, ai valori, al substrato normativo, traducendo gli insegnamenti così diversi sulla forza liberatrice della nonviolenza che sicuramente gli sono venuti, tra gli altri, da Gandhi (come lui riconosceva chiaramente) ma anche da Capitini (che lui ha avuto modo di conoscere).

Insomma, questo gigante del pensiero, e di umanità, ci ha lasciato un inestimabile tesoro. In attesa che dei veri, liberi ed onesti, ricercatori, lo scoprino per quello che è: una riflessione imprescindibile per chi vuole trasformare il nostro presente e generare un'umanità liberata dal demone della guerra e dalle devastazioni della violenza (a tutti i livelli dell'esistenza). E ci ha lasciato una disciplina preziosa, la Peace Research. Un patrimonio per la filosofia politica e per il suo movimento di trasformazione rivoluzionaria. Una fonte inesauribile di ricerca-azione, di prassi-riflessivo-critica-trasformativa, che traduce in termini moderni le esperienze con la verità di gandhiana memoria, inserendosi a pieno titolo nella lunga storia di pensiero e azione che segna la filosofia politica sin dalla sua nascita. Generando così un'istituzione sociale che aiuta, di fatto, ad esercitarsi nello spinoso quanto necessario compito di comprensione-trasformazione delle ingiustizie che segnano ancora profondamente la nostra società-mondo, e la sua organizzazione.

Per questo, e per molto altro, è bene riconoscere il valore e la centralità della filosofia di Galtung. Uno dei tre ultimi grandi saggi del nostro presente (insieme a Morin e Chomsky) ci ha lasciato. Ricordarcelo non serve per celebrarlo, ma per aiutarci a vivere meglio.

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