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Posto su questo blog il mio breve contributo per la riflessione del Congresso Nazionale del movimento nonviolento: link: https://www.azionenonviolenta.it/xxvii-congresso-mn-lomnicrazia-strada-m...

La cornice

Se Capitini osservasse l’attuale contesto sociale-storico (italiano-europeo-mondiale) potrebbe consigliarci, senza sbagliare troppo, di porre particolare attenzione alla nuova chiusura della società. Una chiusura complessa, ovviamente, ma prima di tutto portata da una certa organizzazione del potere sociale in cui si tornano a naturalizzare e legittimare esplicitamente forme di dominazione e di potere diseguale dentro e fuori lo Stato. Prima di tutto la guerra.

La guerra in Ucraina e il genocidio a Gaza sono due “fenomeni estremi” di questa situazione più generale e quasi onnipervasiva. Non sono solo, quindi, espressione di violenza estrema generata in ambito politico, ma la punta di lancia di una tendenza a sostituire la politica con la guerra, sulla scia del fenomeno postdemocratico portato dalla decennale e violenta controrivoluzione neoliberista, che ha quasi completamente neutralizzato la politica come possibile luogo autonomo di decisione sulla sfera economica. I pretesti pubblici di Putin per giustificare l’invasione armata, per quanto grotteschi, sono infatti molto simili a quelli che hanno mosso altre guerre di occupazione nel corso di questi ultimi decenni da parte di Paesi considerati democratici. La giustificazione morale è servita, in tutti questi casi, a legittimare la guerra d’aggressione davanti all’opinione pubblica interna e agli altri attori internazionali. Così come la “soluzione finale” di Netanyahu verso i terroristi di Hamas, che sta condannando a morte ed esilio centinaia di migliaia di persone, si regge sulla giustificazione alla base di qualsiasi “lotta al terrorismo” a cui abbiamo assistito dopo l’11 Settembre del 2001.

Il movimento nonviolento italiano ha deciso di concentrare i propri sforzi sull’importantissima prospettiva del disarmo. Uno dei modi più rilevanti per riaprire la società. Sono convinto però, che, per farlo, vada ricollocata all’interno di questo orizzonte epocale di chiusura, e, anche e soprattutto, si debba considerare dalla prospettiva dell’Omnicrazia. Per organizzare l’azione del movimento, in altre parole, dovrebbero entrare nell’incontro congressuale almeno tre livelli di riflessione progettuale mossi dall’idea capitiniana del “potere di tutti”: oltre a comprendere come sviluppare azioni di trasformazione che portino al disarmo, bisognerebbe riflettere su come queste cambino la natura del potere sociale e la sua organizzazione, e su come incidere, più in generale, sull’immaginario sociale in cui qualsiasi potere si radica e trova la propria legittimazione.

Tre livelli di intervento

Sul piano dell’immaginario della sicurezza, in particolare, andrebbe messa radicalmente in discussione l’idea e la teoria della guerra giusta, dato che essa è ancora l’ossatura argomentativa che impedisce di pensare all’alternativa alla guerra. Non a caso, ancora diffusamente, viene chiamata in causa per giustificare qualsiasi intervento armato. Nella nostra opinione pubblica la guerra viene infatti giustificata in base all’idea che quando uno Stato è minacciato da un’aggressione che può mettere in pericolo la sua integrità territoriale o la sua indipendenza politica, è legittimato a fare la guerra. Per fare comprendere meglio l’opzione del disarmo, e superare l’immaginario della guerra, si dovrebbe sostenere una specie di Jus ad Defensam e spostare l’attenzione dalla guerra giusta alla difesa giusta. Solo in questo caso si potrebbe davvero rendere comprensibile l’opzione di una Difesa popolare nonviolenta e cominciare a far vedere che l’assurdo “diritto di fare la guerra” è, nel migliore dei casi, solo un modo tra gli altri di difendersi. Quello peggiore.

Sul piano della difesa nazionale e/o europea, bisognerebbe entrare nel dibattito sull’esercito europeo o su quello del ritorno alla leva obbligatoria, con la chiara proposta di una DIFESA POPOLARE NONVIOLENTA. Da una prospettiva di transarmamento, non solo si potrebbe chiedere che lo Stato apra la possibilità concreta di realizzare una sorta di sperimentazione, come è già stato fatto, ma cominciare a organizzare dei veri e propri “gruppi di autodifesa nonviolenta” sul territorio nazionale. Per sostenere l’alternativa della difesa nonviolenta, va cominciato subito un processo di autoformazione alle tecniche della nonviolenza da usare in caso di guerra di aggressione. Anche, per esempio, con corsi di formazione riconosciuti legalmente sul territorio nazionale e europeo. Per organizzare una non collaborazione collettiva della popolazione su vasta scala, vanno attivati gruppi che insegnino con la pratica e con l’esempio attivo quali sono le azioni di “solidarietà attiva” portate dal conflitto nonviolento che permettono di difenderci. Come quelle che ci ricorda, per esempio, Gene Sharp: metodi di persuasione e protesta nonviolenta, di non collaborazione sociale-economica-politica, oltre che di intervento nonviolento in caso di difesa dall’aggressione militare (scioperi, boicottaggi, disobbedienza civile, etc). In altre parole, bisogna che una parte della popolazione capisca, vivendolo nella pratica, cosa significhi “difesa popolare nonviolenta”, affinché diventi una proposta dal basso. Altrimenti nessuno sarà pronto a impegnarsi per renderla un’istituzione effettiva a livello dell’organizzazione dello Stato.

Sul piano della realizzazione omnicartica di questa nuova istituzione pubblica, tutto questo però non è sufficiente. Per sostenere il passaggio dall’esercito alla difesa popolare nonviolenta, c’è bisogno di rimettere in discussione la militarizzazione dell’economia-società e la sua ideologia, a cominciare dall’esercizio diretto del potere da parte della cittadinanza. Come aveva già intuito lo stesso Sharp, un potere nonviolento è un potere sociale di tipo autonomo (e quindi solidale) che trova la propria forza nell’autorganizzazione della società civile (i loci sociali), rispetto al potere dello Stato. Senza questa pratica continua di riattivazione del potere sociale, appare estremamente difficile che la popolazione possa anche solo comprendere la fattibilità, l’importanza e la necessità della difesa popolare. Perciò, oltre a sperimentare attivamente le forme del potere nonviolento in caso di aggressione armata, la popolazione, più in generale, dovrebbe vivere processi di decisione politica collettiva che permettano di rafforzare l’autonomia sociale. Anche per questo, quindi, per chiedere di sostituire l’esercito militare, c’è bisogno contemporaneamente di attivare forme di partecipazione diretta al potere collettivo. Sono le basi imprescindibili per un sostegno reale e convinto alla proposta di difesa alternativa da parte della popolazione. Ecco perché andrebbe progettato, sin da subito, un percorso per realizzare l’Omnicrazia. Perché, come hanno capito bene Gandhi, Capitini e Galtung, il potere nonviolento non si dà solo sul terreno del conflitto, ma anche su quello della creazione del “comune”. Un terreno squisitamente politico. Ma non di qualsiasi forma politica. Una prassi collettiva che, subito e inequivocabilmente, permetta a tutti, ovunque, di poter riflettere, decidere e trasformare, insieme agli altri, le istituzioni che già esistono (con il loro senso e valori) o di crearne delle nuove. Prima di tutto dal basso, ma non solo. Processi democratici che consentano alla popolazione di partecipare al potere politico, amministrativo, economico e sociale grazie a forme di autogestione, cooperazione assembleare, e partecipazione libera e diretta alla formazione dei “beni comuni”, ad ogni livello della vita collettiva (dal quartiere al mondo). In una spirale omnicratica (che vada dalla democrazia partecipata all’Omnicrazia).

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