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Quest'anno Amadeus si è superato. Non perché il livello delle canzoni si sia alzato rispetto alle edizioni precedenti, ma perché è un Festival riflessivo.
Non dovrebbe essere così difficile riconoscerlo.
Innanzitutto con i diversi riferimenti alla pace e ai temi sociali (da Ramazzotti ai Negramaro) e ad altri problemi collettivi (come quelli sulla violenza di genere o sulla sicurezza sul lavoro), il più grande spettacolo nazional-popolare italiano ha chiaramente sposato una prospettiva progressista. Non è un caso che i costumi e le idee che sono salite in scena sul palco dell'Ariston quest'anno, come anche in alcune passate occasioni del Festival targato Amadeus, sono legate alla libertà (sessuale, d'espressione, etc) e all'amore inteso in senso molto ampio (basti pensare alla canzone della Mannoia). Ma questo non è eccezionale per la storia del Festival. La novità è che lo fanno in una cornice discorsiva coerente e chiaramente orientata ad una rappresentazione delle relazioni sociali di tipo progressista e antiautoritiaria. In questo senso, il fatto che i diversi cantanti si presentino reciprocamente, generando una simbologia collaborativa e cooperativa, dove la competizione ritorna ad essere un agonismo senza disprezzo né violenza, come negli antichi giochi olimpici e a differenza di quanto guida la competizione del sistema capitalista che il neoliberismo, anche e soprattutto nella versione autoritaria e nazionalista del governo attuale, ha sancito come principio di crescita sociale (ed educativo...), è un segno inequivocabile di questa rappresentazione alternativa. Una gara, certo, ma con rispetto, stima, se non addirittura con amore (come nel bacio tra Emma e Giuliano dei Negramaro).
Quello che ci consegna un'edizione speciale in altre parole, è il fatto che questi temi sono stati accompagnati da discorsi altrettanto impegnati che sono stati costruiti proprio per generare una riflessione critica. Capitanati da volti conosciuti e amati del mondo dello spettacolo, come quello di Edoardo Leo e di Teresa Mannino, sono stati volutamente messi in scena discorsi di peso e intensi, anche se intelligentemente pronunciati con la leggerezza che si addice al contesto. Con la presenza della Mannino (https://www.raiplay.it/video/2024/02/Sanremo-2024-terza-serata-Il-monolo...), per esempio, il tema ecologico e quello di genere, frutto dei due più incisivi e diffusi movimenti di trasformazione della società contemporanea, soprattutto in questi ultimi decenni, hanno trovato casa e voce. Le parole dell'attrice siciliana riescono con intelligenza a colpire l'immaginario collettivo, perché giocano sullo smacheramento dell'idiozia che si cela dietro alcune condizioni e convizioni generalmente condivise e accettate, e che invece si mostrano per quelle che sono: delle scemenze pericolose e dannose. Delle realtà da cambiare.
Il mix di questi riferimenti continui e critici alla realtà sociale, benché spesso generici, fanno discutere e parlare. Entrano nel senso comune e suggeriscono indirettamente, a chi ha orecchie per ascoltare e mente per pensare, una domanda quasi ovvia: se siamo tutti pacifisiti e contrari a qualsiasi violenza e violazione di libertà e diritti, perché ci troviamo un governo di estrema destra e una società così ingiusta?
In questo Festival, quindi, la prima colonna riflessiva è quella dei discorsi e della simbologia delle relazioni che lo fanno vivere, perché invitano alla riflessione critica. E' all'interno di questa cornice che alcune canzoni si distaccano rispetto ad altre. Non molte, a dir la verità, ma qualcuna certamente sì.
Come nel caso della splendida canzone "governo punk" dei bnkr44, in cui si canta di un'intera, nuova, generazione. Questo gruppo ci sbatte in faccia con una chiarezza eccezionale cio' che già dovremmo sapere (la tristezza, la paura, l'impotenza, l'incapacità di vivere come si vuole, il disagio e tutto quello che produce in termini di dipendenza e violenza, il piattume della realtà sociale, che vivono le nuove generazioni). Competizione e disorientamento, alienazione vissuta come un incubo che inchioda ai vizi, che sono l'unico modo per reagire al dramma della condizione generazionale dei nuovi giovani. Una canzone costruita con intelligenza e simpatia, dove un dramma profondo e devastante viene cantato con una musica allegra, ammiccante e quasi sciocca, da ballare e canticchiare. Una canzone capace di generare un stupido tormentone per migliaia di persone. Ma che, in realtà, è una canzone di denuncia, un grido di aiuto, di disperazione. Dove si pensa che l'unica soluzione sia quella di farsi aiutare per non essere quello che si è, ovvero cio' che la condizione sociale ha portato a generare in ognuno dei giovani che vivono nel Paese gerontocratico che è l'Italia: persone consumate da incubi e vizi (per chi decide di restare nel Belpaese). Prime vie di fuga illusorie, da cui scappare ulteriormente. Ma talmente radicate interiormente, da risultare parte di sé. Della propria personalità. Ecco perché per liberarsene occorre scappare da se stessi. Ma proprio questa seconda e definitva fuga dà la cifra della carica riflessiva di questa canzone. Come si fa, infatti, a scappare via da se stessi? O annullandosi completamente. E questo sarebbe il drammatico epilogo della disperazione. Oppure cambiando radicalmente, superando la disperazione con la nuova costruzione di speranza. Facendo una rivoluzione di se stessi, non solo dentro di sé. In entrambi i casi, basta soffermarsi un poco sul senso della canzone per poter arrivare a una di queste due conclusioni. In entrambi i casi l'inquietudine che generano chiama in causa la nostra organizzazione sociale, sebbene il grido di disperazione venga pronunciato da una voce soggettiva, per nulla politica. Ma profondamente critica. E che invoca un aiuto rivoluzionario, per poter essere altrimenti. Ed è proprio in questo che si cela l'interpretazione dell'amore della canzone.
La seconda caratteristica che fa di questo Festival uno spettacolo riflessivo, invece, si trova nella contraddizione che si apre tra la rappresentazione della società e del nostro governo, e quello che invece viene rappresentato sul palcoscenico dell'Ariston.
Nonostante l'ipocrisia di uno spettacolo che non ha veramente la piena libertà di contestare il governo né di mettere in scena la devastazione sociale e umana che si vive nel nostro Paese, ovvero l'ingiustizia diffusa e le misure antisociali del governo, all'Ariston sta prendendo vita un'edizione che, più di molte altre in passato, mostra la differenza tra i valori e i pensieri dell'Italia democratica e quelli dell'Italia repressiva e violenta che oggi ci governa. Non si fa nessun riferimento (Dio ce ne scampi!) alla riforma costituzionale autoritaria del premierato (solo per dire la cosa più evidente e devastante a livello politico che è all'ordine del giorno della nostra vita politica e democratica) né si fa riferimento alla giustizia sociale, indiicando magari i responsabili delle più gravi violenze perpetrate sulla maggioranza della popolazione (come, ad esempio, e sul piano della politica estera, il fatto di partecipare direttamente alla guerra in Ucraina, oppure di non rompere i rapporti diplomatici con Israele davanti al genocidio in corso e senza condannare all'Onu la brutale logica di sterminio perpetrata dal governo israeliano, anche a discapito dei propri concittadini). Questa distanza, questa ipocrisia e contraddizione, stride. E questo fa pensare. Muove alla critica.
L'esempio più emblematico di questa seconda caratteristica, c'è stato prima della prima puntata, nella conferenza stampa in cui Amadeus e Mengoni non solo si sono detti apertamente antifascisti, ma hanno intonato con convinzione "Bella Ciao", con buona pace dell'ignavia di Laura Pausini e di chi considera stupidamente quella canzone come "divisiva". Dirsi antifascisti, pero', e non fare nessun riferimento alla più grave violazione costituzionale in senso autoritario che si sta elaborando in questi mesi da parte dell'attuale governo (il premierato), è quanto meno contraddittorio. E a poco serve ribadire che il Festival non è un luogo politico o chiamare in causa i rischi di essere emendati o censurati dal governo politico della Rai. Perché è proprio questa situazione di sudditanza politica della Rai e le dichiarazioni di antifascismo di Amadeus che generano il tipo di cortocircuito che spinge alla riflessione critica chi sta seguendo il Festival.
Ancora una volta il Festival si conferma non tanto un luogo dove si celebra il Festival più importante della musica italiana, bensì un enorme rituale collettivo centrato su altro, estraneo alla musica. In cui le canzoni sono un veicolo, se non un pretesto. E, in questo caso, per una volta, possiamo aggiungere: e meno male!

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