Sanremo finisce come era iniziato. In una circolarità imbarazzante, dove l'inizio e la fine si sovrappongono grazie allo stesso principio: qualsiasi cosa, pur di fare spettacolo. Qualsiasi cosa, pur di sorprendere e smuovere un pubblico sempre più vorace di novità, sempre più annoiato e meno attento alla qualità musicale. Qualsiasi cosa pur di far vincere l'originalità dello spettacolo, non della musica.
Ma questa circolarità è in realtà un vortice che risucchia la montagna di parole spese dai due showman per rendere vivo e pieno un teatro vuoto, pieno di fantasmi, un rituale nazional-popolare che si è riempito di volti e voci in cui la gara sottotraccia è stata quella di impressionare di più, e non di far conoscere la propria musica, o di presentare novità musicali reali, o talenti artistici musicali.
Si è aperto, di fatto, con il primo tra i "quadri musicali" di Achille Lauro, apparentementemente una novità assoluta, e si è concluso con la vittoria dei Maneskin, un gruppo rock che ha decisamente preso in contropiede tutti (o quasi). Perché "il rock non aveva mai vinto a Sanremo", viene detto un po da tutti davanti questa vittoria che travolge una delle canzoni più sanremesi di tutte, quella di Ermal Meta.
Insomma, due apparenti novità, che nascondono la vuota ripetizione di uno spettacolo che va avanti con gli avanzi musicali di un panorama artistico desolante, che si rifugia nella costruzione del personaggio mediatico e dello spettacolo per lo spettacolo, per nascondere il vuoto della vera novità musicale. Il vuoto della ricerca musicale, che se esiste in Italia, non ha messo piede al 71 ismo Festival della canzone. Un'edizione grottesca, prigioniera dello spettacolo per lo spettacolo che ha fatto della vacuità totale il proprio manifesto. Quasi un'apoteosi dellìipocrisia, dato che, in realtà, l'evento muove e continua a muovere molti soldi e che è parte integrante di un'industria musicale che insegue l'ultima moda e l'ultimo volto da bruciare in fretta, pur di poter restare a galla. I migliori interpreti di questo circo mediatico sono stati sicuramente "Lo stato sociale" che, con simpatica e intelligente autoironia, sono riusciti a interpretare lo "spirito del tempo", giocandoci su.
Però, il vero vincitore del Festival non sono stati né loro né i Maneskin, ma proprio Achille Lauro.
O almeno, la sua "Solo noi", vero manifesto del grottesco, del mostruoso (im)pietoso e compassionevole, della desolazione di una scena musicale triste e penosa che ha trovato in Achille il nuovo eore di una nuova guerra di Troia, contro la creatività musicale. Novello Frankestin, le lacrime di sangue che sgorgavano da un'improbabile accozzaglia spaziale tutta unghie affilate, piume e brillantini, blue, il nostro eroe ha messo in scena l'apoteosi della vacuità, dell'informe esterioriorità, che piange la sua impossibile esistenza, il suo dramma senza anima,quello di essere tutto e niente, di fare del tutto per mostrare al mondo di essere qualcosa, sapendo di non essere nulla. La pietosa rappresentazione dello spettacolo per lo spettacolo in cui siamo tutti immersi, dove la finzione è ormai diventata più reale della realtà, e la maschera ha definitivamente rimpiazzato chi la indossa, diventando una protesi necessaria (per il successo) ma totalmente insufficiente (per vivere), che non riuscirà a colmare l'abisso che si cela dietro l'esibizione dell'eccessivo, dell'esagerazione e del (fittizio) scandalo di essere tutto e il contrario di tutto, che in realtà è, in fondo, nulla di tutto questo. Piatto spettacolo dell'inesistenza. Grido disperato che sa di bucare lo schermo, ma giusto il tempo di una canzone, per ritornare ad essere sempre e soltanto quella maschera, senza corpo, appena la camera inquadra altrove. Una creatura mostruosa e grottesca, che vuole esorcizzare il suo difetto costitutivo, l'essere l'ultimo ed eccessivo figlio dello spettacolo, mostrando la sua sofferenza senza pathos, il suo dolore senza volto, la sua pietosa richiesta di aiuto, come l'ultimo espediente per essere qualcosa che non potrà mai essere. Persona. Perché per esserlo dovrebbe dichiarare i propri limiti. La propria identità definita. Ma l'imperativo dello spettacolo glielo impedisce. Il successo ha bisogno del suo suicidio.
Per tutto questo la richiesta di aiuto dell'angelo/demone azzurro è la vera vincitrice del Festival di Sanremo. Una richiesta pietosa che sa di poter impietosire. Per essere vincente. Di successo. Achille Lauro è il vero vincitore di Sanremo, perché ne è il manifesto più preciso e scientifico. Rappresenta non solo il grido di una generazione lacerata dall'apparenza e dalla perdita di identità, la sua, la generazione degli adolescenti che si protrae fino ai 30 anni (almeno). Che è figlia del narcisismo e dell'onnipotenza autistica e ideologica che la società dei consumi assurge a imperativi collettivi necessari per mandare avanti il circolo produzione-consumo, e che ci inchioda in una società bulimica e anoressica allo stesso tempo. Achille Lauro, con il suo personaggio e la sua canzone, è riuscito a fare quello che nessuno dei concorrenti in gara ha lontanamente sfiorato (a parte "Lo Stato Sociale"): creare una vera e propria immagine del festival, rappresentare la sua vera identità. Un mostro informe che soffre la sua stessa condanna alla pura vacuità. La prigione di chi non deve avere un'identità per poter esistere nel successo, e nutrirsi di questo stesso successo (che gli permette di vivere). Maschera di un'infelicità senza emozioni reali, vittima e carnefice del successo mediatico, che ha trasformato la festa della canzone italiana nell'apoteosi di personaggi fittizzi in cerca di approvazione e attenzione. Vampiri delle visualizzazioni, che si esibiscono per non morire. Perché solo apparendo riusciranno a sentirsi qualcosa.
Qualcosa, non qualcuno.
Il video dell'esibizione di Achille Lauro, vincitore simbolico di Sanremo: https://www.raiplay.it/video/2021/03/Sanremo-2021-Prima-Serata-Achille-L...

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