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Continuiamo il ragionamento avviato sul nostro magazine sulla guerra in Ucraina e sulla necessità di dare concretezza a percorsi di pace, partendo dalle esperienze maturate sul campo. Ne parliamo con Martina Pignatti che sul peacebuilding e sul ruolo della società civile ha molto da dire: direttrice dei programmi di cooperazione “Un ponte per…“, ha promosso incontri di formazione su diritti umani e nonviolenza attiva in Iraq, Giordania, Libano, Palestina e Siria; referente nazionale del Tavolo Interventi Civili di Pace, attiva in Rete Italiana Disarmo, con cui organizza campagne per potenziare il peacebuilding civile e sostenere politiche di disarmo.

Iniziamo con una domanda quasi d’obbligo: questa guerra si poteva evitare?
Assolutamente sì. Rispettando i patti sanciti con la caduta del muro di Berlino, e con il processo di riavvicinamento dei due blocchi. Mi riferisco all’impegno della Nato di non espandersi in modo così eclatante a ridosso della Federazione russa. Si sarebbe potuta prevenire la guerra anche se ci fosse stato un ruolo più forte dell’Ue per cercare di convincere Zelensky a febbraio, per farlo ritrattare rispetto all’adesione alla Nato dell’Ucraina. In quel momento c’è stata una forte pressione della Nato e degli Usa per fare aderire l’Ucraina all’alleanza atlantica, per evidenti interessi americani. Purtroppo in Ucraina c’è un governo che è molto condizionato dalla linea americana, che ha convinto la popolazione ucraina che l’ingresso nella Nato avrebbe aumentato la sicurezza degli ucraini, e invece è successo esattamente l’opposto. Questo agli europei sarebbe dovuto essere più chiaro. Penso che ci sarebbe potuta essere un’operazione di mediazione più forte da parte loro al fine di congelare la situazione, facendo divenire l’Ucraina neutrale. Ma questo non vuol dire che l’Ucraina si sarebbe dovuta disarmare: a volte si crea l’equivoco che chi è neutrale deve essere disarmato. Invece esistono tanti stati neutrali, ma con un esercito. Avremmo potuto continuare a puntare all’adesione dell’Ucraina all’Ue, rafforzando anche gli indicatori politici ucraini sul livello di democraticità di quel Paese, che purtroppo già prima della guerra erano davvero molto bassi. È chiaro, ovviamente e allo stesso tempo, che anche in Russia ci sarebbe dovuto essere un processo interno per mettere in discussione la politica di potenza di Putin. Sappiamo, infatti, che non siamo di fronte ad una democrazia: chi contesta Putin viene avvelenato, arrestato o ucciso. Quindi ci troviamo di fronte ad uno Stato che è estremamente e strutturalmente violento e autocratico.

Voi di “Un ponte Per…” avete proposto la “Neutralità attiva” come la strada maestra per risolvere questa guerra. Davanti ad una situazione in cui questa si sta approfondendo e con buona probabilità estendendo anche al di fuori dei confini dell’Ucraina, se continua così, quali sono i passaggi necessari della de-escalation che vi state immaginando per arrivare alla Pace?
Con tutta la Rete Pace e Disarmo di cui facciamo parte, abbiamo auspicato la “Neutralità attiva” per l’Italia, pur partendo da una netta condanna dell’attacco e dell’occupazione russa e dalla denuncia dei crimini commessi sul teatro di guerra. Noi non ci azzardiamo a dire all’Ucraina cosa deve fare, ma ci rivolgiamo al nostro Paese. Non a caso ho appena criticato la mancanza di mediazione da parte dell’Ue. “L’Italia come Paese neutrale” significa che non deve inviare aiuti militari ad una parte, continuando a denigrare l’altra da tutti i punti di vista. Forse poteva lavorare per delle sanzioni più mirate su Putin e sugli oligarchi, e non su delle sanzioni generalizzate, come ci sono adesso, in cui addirittura manca il mastice per le otturazioni dentarie in Russia. E senza considerare il calo degli export russi, che ha un forte impatto sul prezzo delle materie prime, dei beni alimentari, sempre più cari. Un Paese neutrale avrebbe potuto lavorare per delle sanzioni più mirate, e avrebbe dovuto divenire forza di negoziazione all’interno dell’Unione Europea. Sapendo che le armi all’Ucraina sarebbero comunque arrivate, in Europa è mancata una voce più autorevole a favore della mediazione. Probabilmente sia la Francia sia la Germania avrebbero apprezzato un’Italia neutrale. Attiva. Nella neutralità, sarebbe stata attiva nell’aprire spazi di dialogo. Ora, è chiaro che l’Italia è molto debole in termini di realpolitik, ed è purtroppo evidente che noi, in base ad accordi ancora stabiliti dopo la seconda guerra mondiale, e segreti per il popolo italiano, continuiamo ad essere una marionetta in mano agli Usa. Ma non deve essere così per forza, né per i prossimi mille anni…ad un certo punto un governo può decidere di cambiare qualcosa. Il famoso “complesso militare industriale” esiste. Anche i nostri organi di stampa hanno evidenti collaborazioni con l’industria militare. Ad esempio, nell’ultimo numero di “Limes” dedicato a Putin, la pubblicità più evidente di tutto il numero, che si trova nella seconda di copertina, è la pubblicità della “Leonardo”. Il dibattito politico e mediatico è disturbato dall’interferenza degli interessi dell’industria militare. Inoltre, c’è sempre il giogo della Nato e il controllo delle posizioni politiche dell’Italia che è incomprensibile e inconoscibile a noi cittadin, probabilmente in base ad accordi segretati. Come aveva teorizzato un ex ministro degli esteri norvegese, esiste un potere da parte di piccoli stati di funzionare come mediatori nelle controversie internazionali, perché hanno una leva maggiore nei confronti del loro stesso potere politico-economico. Non rispetto al loro export di armi o agli “aiuti militari”, ma semmai proprio nei confronti del livello di spesa in cooperazione internazionale, peacebuilding e cooperazione economica, anche grazie all’abilità dei loro diplomatici. È chiaro che l’Italia dovrebbe investire di più in questo, ossia nella propria capacità di essere terza parte. Ma questo è un ruolo che dovrebbe avere maggiormente l’Europa tutta, che invece ha deciso di investire in un altro senso: aumentare la propria potenza militare, illudendosi che si possa avere una voce ai tavoli negoziali solo se si gioca una partita sugli aiuti militari.

Un percorso per far finire la guerra
Quando Ursula Von der Leyen sostiene pubblicamente che dobbiamo “far vincere l’Ucraina” in questa guerra, noi ci ritroviamo chiaramente e pubblicamente parte in causa. Perché, in questa situazione paradossale, dove si fa la guerra senza ammetterlo formalmente, secondo te, l’Italia e gli altri Paesi europei partecipano alla guerra senza dichiararlo?
Perché si è deciso di prendere le parti dell’Alleanza Atlantica, e quindi si è deciso che la parte con cui noi dialoghiamo e negoziamo è la Nato. È abbastanza ironico il fatto che quando Draghi è tornato da Washington, abbia affermato: “Molto bene con Biden, ma non bene con Putin”. È chiaro che se parli con Zelensky e Biden, e a Putin neanche gliela mandi la tua proposta di Pace, come pensi di essere visto da Putin?! E questo al di là se a Putin piaccia o meno il tuo piano di pace. Ma è ovvio che dirà che sei un buffone. Perché è questo che ha detto Lavrov, alla fine: che non siamo un Paese serio e che non facciamo proposte serie. È chiaro che se lavori così non sei serio. L’ultima telefonata tra Draghi e Putin, secondo il resoconto che ne ha dato Draghi, è cominciata con Putin che rassicurava l’Italia che la Russia continuerà ad esportare il gas all’Italia. Draghi ha dichiarato che aveva spostato l’attenzione sul problema alimentare, sul fatto di far uscire il grano dall’Ucraina, e Putin pare abbia detto che per la Russia non c’era nessun problema, che i porti li avevano minati gli ucraini. Poi Draghi ha dichiarato di aver smesso di parlare e si è messo ad ascoltare Putin, espressione di un Paese passivo, che una volta che si è preso il gas dichiara: “A posto così. Anche se ti devo far presente che c’è un problema alimentare che impatterà la vita di milioni di persone, tu parla che io ascolto”. Questa condotta, al di là della ragion di Stato, denota mancanza di coraggio, e mancanza di fiducia nella Pace. Proprio in quella conferenza stampa, alla fine, un giornalista ha domandato a Draghi se avesse visto qualche spiraglio per la Pace, e lui ha risposto seccamente: “No”. Se non hai “l’ottimismo della volontà” non sarai mai, mai, mai, un fautore di processi di Pace. Per questo penso che non ci siamo. La comunità internazionale continua a spingere l’Ucraina verso le operazioni militari, ma poiché spero che diventerà sempre più evidente sia a Zelensky che a Putin che nessuno dei due può vincere militarmente, mi auguro davvero che il raziocinio di questi due leader, nonostante tutte le pressioni che arrivano loro dalla comunità internazionale, li porti a voler arrivare a patti. Ora, però, la Russia può andare avanti e mantenere un conflitto di più bassa intensità, cercando di perdere meno soldati russi di quanti non ne abbia persi sino ad ora, e lo può fare per un bel po’. L’Ucraina, al contrario, non credo se lo possa permettere. A meno di non distruggere tutto l’est del Paese. Per questo non ci rimane che sperare nel raziocinio di chi sta combattendo, sapendo che più la guerra va avanti e più i popoli saranno inferociti. Reciprocamente impauriti. Qualche sera fa, di ritorno da Roma, ho incontrato una donna di Leopoli, dell’Ovest, che lavorava come portiera in un palazzo, e le ho chiesto se tutta la preoccupazione che aveva per i suoi parenti ed amici era un buon motivo per lasciare stare la “Crimea”, e lei mi ha risposto: “No! Assolutamente. Dopo tutto quello che hanno fatto i russi non gli si può lasciare neanche un’unghia di terreno”. Al di là di quello che possono decidere i leader, che valutano tutti gli scenari, per la popolazione arrivare ad accettare un accordo di pace sarà sempre più difficile. Su quanto si può fare di positivo e propositivo per preparare questi due popoli al dialogo entra in gioco la responsabilità della società civile. Dovremmo tutti, come popolo di Europa, lavorare con gli ucraini rimasti in patria e con coloro che hanno trovato rifugio all’estero, per fare in modo che questa portiera ucraina veda altre possibilità.

A questo proposito, voi di “Un ponte per…” avete fatto la proposta di un “Summit di pace” proposto proprio dalle città europee, e non dai governi. Ci puoi spiegare per favore in cosa consiste? Perché sarebbe l’unica strada da percorrere in questo momento?
Come “Un Ponte per…” pensiamo che si possano fare tante cose. Dall’intensificazione degli aiuti umanitari, che ancora mancano (servizi sanitari, alimentari, e di base), al mettere in primo piano e con urgenza la fine del problema alimentare, perché ha un impatto sul mondo intero, ed è drammatico non solo per la sicurezza alimentare ma anche per quella militare e politica per tante aree del mondo instabili. E poi bisogna pensare di lavorare sulla formazione di operatori/trici locali per cercare di trattare i traumi della guerra, il peacebuilding, la coesione sociale, il giornalismo di pace, la resistenza al linguaggio dell’odio, rivolti alle varie anime che compongono l’Ucraina. Perché adesso siamo in presenza anche, in parte, di una guerra civile. Di cui pochi parlano, ma che è innegabile. Per questo bisogna lavorare soprattutto sulla coesione interna agli ucraini, e la loro capacità di dialogare l’un con l’altro. Se si ascoltassero probabilmente comprenderebbero che non c’è una sola voce. Ed è anche legittimo che le diverse parti dell’Ucraina abbiano diverse forme di autonomia e autogoverno. Questo potrebbe essere parte della soluzione. Come l’Italia, dove abbiamo delle regioni a statuto speciale, bilingue, o province autonome, che potrebbe indicare una delle mille soluzioni da individuare per i territori contesi, o comunque dal punto di vista etnico-linguistico diversi dal resto della nazione. Su questo si dovrebbero sedere al tavolo senza precondizioni, Putin e Zelensky. Senza dire che la soluzione finale è che alcuni territori stanno dentro il territorio russo od ucraino. L’apertura del tavolo deve essere sui livelli di autonomia e gestione politica di queste aree contese. E poi si negozia. È in quel momento che la comunità internazionale deve mettere sul tavolo tutta una serie di vantaggi per entrambe le parti nel caso in cui entrambi arrivino ad un negoziato. Dobbiamo rendere l’accordo più profittevole possibile. In questo senso bisogna dare dei segnali alla Russia che c’è una disponibilità ad alleviare queste sanzioni, per cui si dovrebbe arrivare ad una serie di accordi di cui la messa in sicurezza del porto di Odessa deve essere il primo passo. Proprio per la sua implicazione nella crisi alimentare. Credo che un accordo sarebbe alla portata di mano di tutti perché più la guerra va avanti e più conviene a tutte le parti farla finire. Zelensky l’ha detto più volte, tra l’altro, che gli andrebbe bene ritornare alla situazione pre-guerra. È abbastanza scoraggiante constatare come prima era riluttante ad accettare questo scenario. Ed è proprio per questo che è davvero strano che nessuno dica: “Ci siamo sbagliati!”. Ci siamo sbagliati sin dall’inizio a rafforzare militarmente l’Ucraina per farla uscire da quello che effettivamente era un equilibrio instabile, ma che era pur sempre un equilibrio che aveva consentito all’Ucraina di rimanere là, circondata da Paesi Nato, a ridosso della Russia, con un conflitto intenso, purtroppo, già in Donbas e Crimea, ma senza l’occupazione militare di grande portata che si è vista dopo. Ci sono delle regioni in cui questo equilibrio instabile può andare avanti per decenni. Pensiamo al Nord-est della Siria, dove effettivamente la Turchia attacca, occupa una parte del territorio, ma il Confederalismo democratico e l’amministrazione autonoma, continua ad esistere. Se si cercasse una soluzione definitiva, probabilmente si andrebbe alla guerra totale. Né la Turchia, né Assad, né i curdi, accetterebbero di arretrare. A volte una situazione conflittuale dove si continua a contenere lo scontro armato, può essere il miglior compromesso possibile per un certo periodo di tempo. Poi sarà la storia a decidere quale sarà l’equilibrio di lungo periodo. Sul “Summit di pace” va detto che la cooperazione decentrata è sempre una dimensione importante del dialogo politico. La diplomazia tra città (city to city) permette ai cittadini di confrontarsi tra di loro sulla realtà, i punti di vista, le necessità, della cittadinanza, astraendo dagli interessi della geopolitica. Che, notoriamente, sono al di sopra della testa, degli stomaci e delle necessità delle persone. Su questo i nostri partner rumeni, della città di Cluj, con cui stiamo costruendo l’intervento in Ucraina, hanno messo in piedi un gemellaggio tra Cluj e Kiev. Il sindaco rumeno è andato a Kiev a incontrare il suo corrispettivo. Anche in questo caso sono partiti dalle esigenze umanitarie, dai servizi sociali. Anche qui, per esempio, quando sei su un livello cooperazione decentrata si vede subito, perché tutti si pongono l’obiettivo di trattare le necessità della popolazione. Questo, tramite lo scambio, può aiutare a modificare anche i propri punti di vista e le proprie percezioni. Da tutte le parti, sono l’apertura e i contatti interpersonali ad allargare la visuale delle persone. Questo fa sempre bene ed è un’opzione su cui puntare.

Ci sono delle città italiane che sono sensibili a questa proposta?
Vi sono molti gemellaggi di lunga data tra città italiane ed ucraine, come quello tra Firenze e Kiev, mentre altri stanno nascendo come tra Napoli e Odessa. Ancora non sappiamo se da questi scambi nasceranno proposte che vadano oltre l’emergenza e gli aiuti umanitari, ma è un filone di lavoro molto interessante.

Quando parlavi dei vantaggi da portare al tavolo dei negoziati, a cosa ti riferivi esattamente? Cosa possiamo fare noi, come Italia e come Europa, per fare in modo che si avvii questo tavolo di negoziazione?
All’Ucraina ovviamente offrire un processo velocizzato per entrare nell’Ue. Con tutti i vantaggi che questo implica dal punto di vista economico, la libertà di circolazione per le persone, inclusione per tanti giovani ucraini nei programmi di scambio europei, e fondi per la ricostruzione. Vari vantaggi per diversi segmenti della popolazione. Per quanto riguarda la Russia, allentamento delle sanzioni e accordi vantaggiosi dal punto di vista economico. Anche se è difficile capire quali sono i percorsi in questo senso. Però Putin, soprattutto all’inizio del suo mandato, cercava molto l’inclusione e l’asse con l’Europa. Non si è posto da subito come un leader conflittuale verso le leadership dell’Occidente. Ovviamente sarebbe semplice la re-inclusione sin da subito della Russia negli organismi internazionali, da cui è stata esclusa. Servirebbero poi programmi che privilegiano il dialogo con gli artisti e gli sportivi russi dopo la discriminazione che c’è stata. Dei programmi per riparare l’atteggiamento razzista che si è avuto contro i russi in tutto il mondo. I programmi in positivo che vadano a riparare i danni fatti sono fondamentali. Lo vediamo anche nella vita quotidiana. Per esempio, un bambino che va a scuola con mia figlia, che veniva con il colbacco con la stella rossa, dal momento che è iniziata la guerra la madre gli ha detto, per proteggerlo, che se lo doveva togliere. Proprio perché i primi giorni lui è stato bullizzato dai suoi compagni di classe che lo avevano accerchiato e additato come “russo assassino”. Se questo avviene in un microcosmo di una scuola toscana molto progressista dove si fa un lavoro splendido con i bambini sul dialogo, la coesistenza, l’antirazzismo, figuriamoci nel resto del mondo. Non solo dell’Italia. Per tutto questo bisogna mettere in piedi tutto un processo di riparazione a tutto il male che è stato fatto al popolo russo che non ha grosse responsabilità purtroppo sulla condotta del suo leader, al di là del grosso consenso che in questo momento ha Putin. Per paura e disinformazione interna. Infatti un’altra proposta che facciamo è quella di lavorare con la stampa indipendente russa, che sta fuori dalla Russia ma che trasmette in russo, e riesce ad arrivare anche alla popolazione che sta dentro la Russia. Anche se si potrebbe sicuramente fare di più.

Un ponte per l’Ucraina”
Voi avete scelto di dedicarvi all’Ucraina mettendo in piedi un programma specifico, “Un ponte per l’Ucraina”. Quali sono gli assi principali di questo programma?
In questo momento stiamo sviluppando i progetti con partner ucraini, rumeni e alcuni partner russi, che lavorano appunto nella sfera del peacebuiliding e della comunicazione. Per capire come possiamo sostenere soprattutto i giovani, nell’avviare programmi di coesione sociale e corretta informazione. Quindi lavoriamo separatamente nelle due parti, per aiutare a informare correttamente la popolazione sulla non discriminazione, la prevenzione del linguaggio dell’odio e il peacebuilding più in generale. Dare strumenti ai giovani per essere autori di una speranza di pace per il futuro. Abbiamo ovviamente portato una “Carovana di aiuti” con tutte le altre associazioni e ong italiane dal primo corteo no war, e ne stiamo organizzando un’altra. Questi aiuti umanitari, però, sono più simbolici che altro. Sono un modo per mostrare vicinanza e presenza alla popolazione ucraina. I grossi aiuti umanitari dovrebbero arrivare dalle grosse agenzie internazionali in questo momento. È molto preoccupante che a volte i carghi umanitari inviati dai governi siano stati mescolati con carichi di armi, perché questo mette a repentaglio la sicurezza di tutti gli operatori umanitari. Se non si possono distinguere gli aiuti umanitari dalle armi è un crimine nei nostri confronti. Ed è purtroppo un altro degli errori che ha fatto la comunità internazionale. Ne abbiamo avuto la prova provata quando i lavoratori delle Usb dell’areoporto di Pisa si sono trovati a caricare sullo stesso aereo casse di munizioni e di armi, e casse di aiuti alimentari. Erano sullo stesso veicolo e sono stati molto presumibilmente trasportati con gli stessi canali verso l’Ucraina. Questa cosa non è tollerabile.

Assolutamente no. Questo mette a rischio l’intera missione umanitaria tra l’altro.
Esatto.

Diventano bersagli militari…
È la stessa ragione per cui non vogliamo, come Ong, che i militari si occupino degli aiuti umanitari. Cosa che invece cercano di fare, proprio per aumentare la loro accettazione da parte delle comunità in cui intervengono. Secondo noi ognuno deve fare il suo mestiere. Se sei militare devi farti accettare perché stai facendo qualcosa di utile per la sicurezza di quelle persone. Se, per esempio, sei in una missione di Peacekeeping dell’Onu. Se la popolazione non ti accetta, forse non stai facendo il lavoro giusto (ridiamo, ndr).

In effetti è una specie di controprova. Ti leggo un passaggio che avete scritto come “Un ponte per l’Ucraina”, nel comunicato che ha lanciato il programma: “La guerra che spira ad oriente è figlia diretta di chi ha distrutto le aspirazione di pace dei popoli, dopo la caduta del muro di Berlino, e di chi ha dimenticato la lezione delle guerre globali del secolo scorso”. Quali sono le lezioni che non abbiamo preso in considerazione con la guerra in Ucraina?
Innanzitutto che ci sono sempre dei momenti in cui è chiaro che i Paesi hanno la possibilità di aprire il dialogo per fermare l’escalation della violenza. Questi passi, in cui il conflitto armato può essere prevenuto, sono passi importantissimi, in cui tutta la comunità internazionale deve essere estremamente proattiva nel facilitare il dialogo. E quindi tutti si devono sentire responsabili di evitare il casus belli. Voluto o non voluto. Frutto di incidente o gesto della diplomazia. E poi c’è il fatto che un conflitto di questo tipo, una volta iniziato, come nel caso in cui l’Iraq ha invaso il Kuwait, diventa un conflitto internazionale, una proxy war (guerra per procura, ndr) tra grandi blocchi, che sono difficilissimi da contenere. Che possono andare avanti per anni, che possono portare ad embarghi pluriennali. Basti ricordare l’embargo dell’Iraq, durato 13 anni. E non prima di arrivare alla pace, ma prima di arrivare alla seconda guerra del golfo. Ossia, un’altra tragedia che subentra alla prima… La difficoltà di arginare questi conflitti e prevenire il fatto che divengano globali. La guerra in Siria ci ha insegnato che quello che era all’inizio un conflitto interno, poi è diventato una “Proxy war”, perché tutte le potenze regionali e internazionali ci hanno messo il naso e seguito il proprio interesse. E poi, in generale, si continua a non comprendere la difficoltà nel ricostruire un Paese dopo un conflitto prolungato. A me fa impressione vedere Raqqa e Mosul che, dopo 6 anni dalla fine del conflitto, sono ancora in macerie. E poi c’è una cosa che non capisco come non riesca ad entrare nella testa delle persone, ossia che se un essere umano viene a mancare, non tornerà. Se faccio diecimila morti, poi non risorgono. Sono diecimila persone che mancano alle rispettive famiglie. Sono quarantamila invalidi che rimangono sulle spalle della popolazione. Tutto questo continua a provocare dolore. Un bambino invalido provocherà dolore nella sua famiglia e resterà disabile per i successivi 60 o 70 anni. Insomma, sono delle ferite grossissime che la guerra lascia nel cuore e nel fisico di un popolo, e non hanno prezzo, e non sono risarcibili. Non c’è mai una ricostruzione che possa tornare indietro ad un equilibrio precedente quando parliamo di vittime e feriti. E poi, l’ultima grande lezione, è che di crimini di guerra si macchiano tutte le parti. Tutti i combattenti, da tutte le parti. Non c’è niente da fare. Poi, per carità, la storia cancella e i potenti cercano di dimenticare. Ma i popoli non dimenticano. Quindi tutta una serie di stragi compiute dal governo degli Usa, da quello israeliano, turco, o dalle forze Nato, sono innegabili. Sono crimini di guerra. Ormai fanno parte della storia. È inutile che ci stupiamo se poi c’è stata Bucha. La guerra è questa.

Certo, purtroppo è così. Uscire dalla Nato potrebbe essere un passo che aiuta la de-escalation, oppure no?
È chiaro che noi auspichiamo la fuoriuscita dalla Nato, ma non mi sembra che sia un obiettivo raggiungibile per un Paese come l’Italia. Immagino che un Paese come l’Italia possa premere per una trasformazione della Nato, modificando gli obiettivi del Patto Atlantico, che non dovrebbe più essere atlantico perché siamo in un mondo integrato globalmente, e nessuno di noi dovrebbe avere interesse a dividere il mondo tra il Patto Atlantico, da una parte, e la Cina e la Russia dall’altra. Noi in questo momento stiamo spingendo la Russia verso la Cina in modo che diventino un gruppo ancora più coeso, e sostenuto da tanti Paesi del Sud del mondo contro di noi… i nostri governi lo stanno facendo scientemente. Questo, ovviamente, renderà il mondo più insicuro. Quindi bisogna premere affinché la Nato modifichi il proprio mandato, e ripensi al senso della propria esistenza in senso, appunto, più globale. Anche se è chiaro che uscire dalla Nato sarebbe un bel segnale. Noi, come “Un ponte per” – “Rete Pace e Disarmo”, in questo momento abbiamo cercato di fare altre proposte, semplicemente perché le giudichiamo più utili, nel senso che sono più ascoltabili per le orecchie del governo italiano. Anche se le nostre proposte sembrano super utopiche ai nostri politici, 4 di loro fanno parte del Piano di Pace italiano presentato all’ONU, ma troppo tardi e con mancanza di coraggio e coerenza, come già detto. Credo, insomma, che la storia farà il suo corso fregandosene bellamente del governo italiano.

Come spesso è accaduto. A me sembra che la guerra, come accennavo, si stia approfondendo, che è il primo passo per estenderla. Forse l’Onu può giocare un ruolo per fare iniziare davvero una de-escalation, no?
L’Onu non ha un mandato sufficientemente forte da parte degli Stati per giocare un ruolo nella mediazione, arrivati a questo punto. Però l’Onu si può sicuramente mettere a disposizione per monitorare e rafforzare qualsiasi passo avanti, qualsiasi patto si riesca a raggiungere. Nel momento in cui si raggiunge il cessate il fuoco, lo sminamento del porto, ci vuole subito una missione di peacekeeping Onu. Per monitorare, verificare, scoraggiare, fare interposizione. Questa secondo me può essere la funzione dell’Onu. Basti ricordare gli accordi di pace siglati con mediazione dell’Italia in Mozambico: in questo caso, dopo gli accordi del ‘92, c’è stata una missione dell’Onu che si è recata in loco per monitorare il rispetto degli accordi e la transizione verso la democrazia. C’è stata tre anni, e nel ‘95 ha dichiarato la missione compiuta. Poi se n’è andata. Un impegno dell’Onu che monitori la tregua, anche se fragile, e quindi che si rafforzino quei piccoli passi che poi ne consentano altri, più ambiziosi, può essere fondamentale.

Sul movimento pacifista
Mi sembra che, oltre ad una fortissima propaganda di sostegno alla guerra e a favore del blocco che sostiene l’Ucraina a cui tu hai già fatto riferimento, esista anche una certa difficoltà degli attori pacifisti nello smarcarsi dalla propaganda che sostiene che si può costruire la pace anche inviando le armi e sostenendo militarmente il Paese aggredito. Condividi questa mia impressione? E, nel caso, cosa si potrebbe fare per fare chiarezza?
Condivido. Anche se credo che, da parte degli italiani, ci sia una percezione forte che continuare ad assecondare i combattimenti sia svantaggioso per tutti. Credo che, purtroppo, le ragioni che convinceranno di più le parti a disarmarsi, saranno quelle economiche. Tanto è vero che le istituzioni finanziarie e le banche d’affari stanno producendo report disastrosi sull’impatto di questa crisi. Infatti, forse il primo tra i “potenti” italiani a schierarsi contro l’invio di armi è stato De Benedetti. Non a caso. Ci sono grosse fette dell’economia e della finanza che cercano di spiegare a tutti che questa situazione è pericolosa, dannosa. Dal punto di vista economico-finanziario porterà grandi sofferenze a tutti. Forse sono questi gli argomenti che hanno convinto il 30-40% degli italiani che sarebbe il caso di smetterla di portare armi all’Ucraina. Poi c’è anche quel 10% di pacifisti. E il resto delle persone è purtroppo molto succube di questa idea del Pd, per me incomprensibile, che bisogna assolutamente aiutare militarmente gli ucraini perché possono vincere. Penso che sia rimasto l’ultimo partito in Europa che crede che l’Ucraina può vincere militarmente. Quindi aiuta molto poter raccogliere l’informazione sui danni delle guerre che abbiamo vissuto negli ultimi 50 anni, su dove portano gli errori commessi. Come, appunto e per esempio, la guerra in Siria ha prodotto un’altissima instabilità in Medio Oriente, con ancora milioni di rifugiati siriani che stanno nei Paesi circostanti, la crisi economica, la carestia, etc; è così che una guerra come questa destabilizza tutta l’Europa. Ma davvero vogliamo questo per i prossimi 10 anni? Credo che la rilettura della Storia aiuti a comprendere che bisogna tentare altre vie, e avere più coraggio nel cercare soluzioni. Ad esempio, appunto, anche solo parlare degli accordi di Helsinki. Come sono stati preparati? Ci sono voluti tre anni di incontri sul testo dell’accordo. Perché li hanno firmati là? Perché la Finlandia era un Paese neutrale. A cosa servono i Paesi neutrali? A mediare e costruire accordi di questo tipo, per la sicurezza e la cooperazione comune. Chi c’era ad Helsinki? C’era anche la Russia…Riparlare di tutti questi dettagli e anche riparlare alla popolazione europea di quanto è stato importante avere dei politici coraggiosi e illuminati che hanno costruito quel percorso, è fondamentale. Oppure torniamo alla Pace in Mozambico. Non è il frutto di un incontro, ma di ben 11 incontri ufficiali nell’arco di più di due anni. Quindi con una strategia, e un grandissimo protagonismo della società civile e delle chiese. Perché senza Sant’Egidio, e senza avere anche le chiese locali, non si sarebbe mai arrivati a quell’accordo. Quindi è importante dare più voce alla società civile quando la politica fallisce. Quando si arriva ad uno stallo, è un’occasione. Per tutto questo è importante recuperare la storia dei processi di pace, e non solo la storia delle guerre, che è quella che si studia normalmente a scuola. Per dare alle persone più speranza. E questa storia non è basata tanto sugli ideali, ma sui fatti storici, di cui non si parla.

Pensi che l’Europa prenderà questa strada?
Penso che debba farlo. Non lo farà, però, perché questa leadership mi sembra abbastanza guerrafondaia e poco democratica. Il modo in cui la Von Der Leyen ha contrattato i vaccini, in modo assolutamente svantaggioso per l’Europa, adesso lo vuole usare per fare accordi con le compagnie militari, in modo assolutamente non trasparente. Pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina, la mediatrice Ue nella squadra negoziale con Big Pharma, ha definito «malgoverno» l’opacità di Bruxelles: Von Der Leyen aveva messaggiato per settimane con l’amministratore delegato di Pfizer mentre un contratto per i vaccini veniva negoziato, e ha rifiutato di rendere pubblici i messaggi. Ho paura che faccia lo stesso con le grandi imprese militari, su grandi commesse di armamenti acquistati a livello europeo. Ecco, questo mi spaventa molto. Penso che dobbiamo eleggere al Parlamento europeo dei politici illuminati che vogliono lavorare in un’altra direzione, poi sugli esiti vedremo come. Grandi movimenti per la pace e grandi manifestazioni sono molto importanti, e per questo abbiamo manifestato in 10.000 a Pisa il 2 Giugno, contro la base militare che il governo voleva costruire in un parco naturale, per ricordare che non bisogna lasciare militarizzare il nostro territorio. Tutte le manifestazioni che ci sono state il 2 Giugno, in questo senso, sono stati dei segnali importanti che dovrebbero essere amplificati a livello europeo.

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