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Pace e guerra, violenza e nonviolenza, sono tra gli aspetti più importanti che orientano qualsiasi organizzazione sociale e quindi, anche, qualsiasi progetto di società. Quando nel 1945 nasce l’Onu, e quando, subito dopo, nel 1948, si stila la Dichiarazione universale dei diritti umani, si cerca di sancire una “pace universale” e un pacchetto di “diritti dell’uomo e di libertà fondamentali” che riescano a fondare per la prima volta la pace planetaria sulle macerie di un massacro mondiale che l’umanità non aveva mai conosciuto. E che non si riduce solo all’olocausto o alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.

Due straordinari orrori e crimini contro l’umanità che, come si era resa conto anche la filosofa di origine ebraica Hannah Arendt nel caso dell’olocausto, non rientrano neanche più nella categoria di “male”, perché sono espressione di un “male radicale” che annienta l’umanità come tale.

La guerra in Ucraina e il tradimento dell’Ue
Quando nel 1992 la Cee diventa Ue, con il Trattato di Maastricht, si compie un processo lunghissimo iniziato negli anni ‘50 proprio per realizzare uno spazio politico ed economico stabile e solido per evitare di ripetere le guerre che hanno insanguinato l’Europa per centinaia di anni e che l’hanno vista teatro principale delle due guerre mondiali. Tutti i limiti e i problemi di un’Unione prigioniera di una visione economicista e di politiche neoliberiste s’intrecciano quindi, da quel momento, con una prospettiva che cerca, nonostante tutto, di rispettare il quadro internazionale nato con l’Onu. Con molta ipocrisia e terribili contraddizioni interne, l’Ue cerca di conciliare l’inconciliabile. Tuttavia, su un punto la sua “identità” mantiene una certa coerenza, perché riesce ad evitare che scoppino delle guerre tra gli Stati dell’Unione.

Tuttavia, come succede con tutte le “guerre fondative”, con la guerra in Ucraina l’Ue sta cambiando questo primato, abbandonando di fatto l’orizzonte nato con la fine della seconda guerra mondiale e tradendo di fatto se stessa.

Partecipare alla guerra in Ucraina
L’aggressione imperialista della Russia di Putin, mascherata in patria allo stesso modo con cui anche gli Stati europei hanno mascherato per decenni invasioni e occupazioni militari di altri Paesi del mondo, sancisce il ritorno in grande stile (ossia con un cinismo mediatico “spettacolare”) di una politica di potenza sul piano delle relazioni internazionali. La violazione russa dei principi dell’Onu non dovrebbe sorprendere, non solo perché da quando Putin è a capo della Federazione russa ha fatto lo stesso in altre parti della sua supposta “sfera di influenza” (dalla Cecenia alla Siria), ma perché sono decenni che diversi analisti e studiosi hanno messo in guardia il mondo sull’autoritarismo russo. Ma, nonostante il quarto mandato a Putin, l’Ue non solo non ne ha tenuto conto ma ha deciso di sviluppare con la Russia degli scambi commerciali in settori strategici per la sua esistenza, come quello dell’energia. Come se non bastasse, ormai in modo esplicito, ha deciso di partecipare alla guerra inviando le armi a Kiev, seguendo in tutto e per tutto la Nato e gli Usa che di certo non hanno interesse a rispettare l’Onu e i suoi principi. In questo modo è entrata a tutti gli effetti nel conflitto armato con la stessa prospettiva con cui da sempre tutti i soggetti che fanno la guerra pensano di “vincerla”. Le recenti parole della presidente Von der Leyen non dovrebbero dare adito a confusione ed ambiguità in questo senso. Lo stesso dicasi per l’inedita prospettiva di creare un esercito armato europeo, ormai all’ordine del giorno, che trasformerebbe, a tutti gli effetti, l’Ue in una potenza imperiale.

A dispetto della saggezza e degli impegni presi dai nostri nonni dopo aver vissuto l’orrore mondiale e aver affrontato il baratro nucleare nel suo momento iniziale, l’Ue ha deciso di voltare le spalle a se stessa. Ha risposto alla violazione russa con la stessa logica e gli stessi strumenti, violando quanto sancito nell’atto fondativo dell’Onu (art.1): “Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questo fine rendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace”. In sostanza quello che anche la nostra costituzione repubblicana sancisce in modo inequivocabile e che il governo Draghi e il Presidente della Repubblicano hanno ignorato.

Pace con mezzi pacifici
Come alcuni osservatori stanno cominciando a capire recentemente anche in Italia, per difendere l’Ucraina e la sua popolazione, oltre a condannare l’aggressione, dare rifugio ai profughi e a cercare di prendersi cura della popolazione civile, è necessario avviare un processo di de-escalation, l’unico in grado di portare ad un cessate il fuoco e ad un futuro accordo che metta fine all’invasione e alla guerra. Ma non molti hanno ancora capito che ciò si può fare solo se emerge un attore terzo, riconosciuto dall’Ucraina e dalla Russia, in grado di traghettare il percorso negoziale verso la Pace. Pochissimi poi stanno affermando che, se l’Ue vuole rispettare la sua origine e giocare questo importantissimo ruolo, deve uscire dalla polarizzazione della guerra.

Ma come possiamo farlo se non riconosciamo che stiamo in guerra? E come è possibile farlo, se continuiamo a sostenere la liceità dell’invio delle armi a Kiev? Impossibile. È paradossale che qualcuno creda che l’Italia e l’Ue possano giocare un ruolo schizofrenico che la Russia chiaramente non può accettare: partecipare alla guerra e, allo stesso tempo, proporsi come attori terzi, capaci di negoziare una pace tra la Russia e gli Usa-Nato-Ucraina.

Ecco perché è fondamentale ricordarci che “un’altra pace è possibile”. Quella che, come Economiacircolare.com vogliamo chiamare “una pace senza armi”, per sottolineare ironicamente che la discussione mediatica italiana impone questa categoria grottesca, tautologica, perché non sta facendo tesoro di una lunga tradizione di esperienza e di conoscenza storica sviluppatasi non a caso proprio dalla fine della seconda guerra mondiale sino ad oggi. È questo pozzo di esperienze virtuose ed efficaci di cui l’umanità e l’Ue hanno bisogno in questo momento, e perciò è bene cominciare a parlarne pubblicamente.

Un pozzo di esperienze virtuose
Questa tradizione di esperienze e di conoscenze si basa su una verità indubitabile e antropologica: “violenza chiama violenza”. Ossia sull’esistenza di quello che Johan Galtung, l’autorevole fondatore della Peace Research, chiama a ragione il “circolo della violenza”. È questo che sta alla base dell’idea che esiste un’escalation di violenza che porta alla guerra, e che successivamente porta alla sua estensione e approfondimento, così come esiste una possibile “de-escalation”, che porta invece alla sua riduzione, e poi alla sua progressiva conclusione. È sulla base di questa verità propria ad ogni conflitto violento e armato, che si può affermare con certezza che inviare le armi significa, molto semplicemente, approfondire, prolungare ed estendere il conflitto. Esattamente l’opposto di quello che viene dichiarato pubblicamente.

Nella vasta produzione teorica e nel vasto bagaglio esperienziale collettivo che Galtung sintetizza e mette a sistema, troviamo un libro che ci può essere particolarmente utile, dal titolo emblematico, “pace con mezzi pacifici” (1996), dove viene dimostrato in maniera impeccabile come la guerra e i conflitti violenti non solo sono inefficaci rispetto all’obiettivo che si propongono di raggiungere, ma che, in nessun caso nella storia, sono questi strumenti a riuscire a portare alla pace. Proprio come avevano capito i fondatori dell’Onu e della costituzione italiana, nata dalla convinzione che altre guerre non ci sarebbero dovute essere e che, in caso contrario, si sarebbe dovuto agire in modo diverso da come loro erano stati obbligati a fare nella lotta di liberazione. E proprio come possiamo riscontrare in tutte le guerre contemporanee, dall’Afghanistan alla Siria, passando per la Colombia e così via.

Brevi accenni storici di conflitto senza armi
Sarebbe troppo lungo in questa sede riportare le più importanti esperienze che l’umanità ha virtuosamente vissuto per affrontare il problema del “circolo della violenza” e per trasformare i conflitti violenti e armati in conflitti non violenti e in trattati di pace. Mi permetto di ricordarne alcune nate in contesti di guerra che hanno una certa forza pratica e simbolica, al di là dei tre più importanti processi di trasformazione politica nonviolenta che hanno segnato il ‘900 (la decolonizzazione indiana, la lotta per i diritti civili dei neri d’America, e la fine dell’Apartheid con la conseguente affermazione della Commissione per la verità e la riconciliazione). Questi processi sociali e politici fanno del secolo scorso non solo il secolo più sanguinario della storia dell’umanità, ma anche il “secolo della nonviolenza”, ossia dell’alternativa di pace ai contesti di estrema violenza che si impongono nel mondo. Tali esperienze dimostrano come è possibile rompere il circolo della violenza non solo quando siamo in presenza di una guerra ma anche quando siamo in presenza di un ordinamento giuridico-politico violento che “non si limita” all’omicidio e alla tortura, ma che sancisce quella che Galtung chiama, a ragione, “violenza strutturale”.

Il primo esempio storico potremmo prenderlo proprio riferendoci a quei nazisti di cui le propagande di entrambi gli schieramenti oggi si riempiono la bocca. In Norvegia, nel 1941, in piena occupazione nazista, il governo fantoccio di Quisling a guida nazista, gli insegnanti, i genitori degli alunni e diverse chiese del Paese, decisero di disobbedire agli ordini di nazificare l’educazione del Paese e fecero un grande sciopero. Malgrado le pressioni e le minacce, le scuole rimasero chiuse e si organizzarono scuole alternative con l’aiuto dei genitori che inondarono di lettere di protesta il ministero dell’istruzione. Milletrecento insegnanti furono arrestati e inviati ai lavori forzati nei campi di concentramento, moltissimi torturati. Tra maggio e ottobre del 1942 gli arrestati furono rilasciati e le scuole riaperte senza l’implementazione dei programmi nazisti.

Il secondo esempio storico lo troviamo in casa nostra. Dopo l’8 settembre 1943, migliaia di soldati e ufficiali italiani furono arrestati dalle truppe tedesche che avevano invaso l’Italia con il sostegno dei fascisti. Vennero deportati nei campi di concentramento nazisti. Ad essi fu proposto di tornare a casa in cambio di una collaborazione con la Repubblica Sociale. Pochissimi aderirono: la quasi totalità restò nei campi di concentramento, indebolendo di fatto la capacità militare della Repubblica di Salò e dell’occupazione nazista. Questo fenomeno va ricollocato all’interno della lotta di resistenza, che ha visto anche una parte considerevole della popolazione sviluppare azioni di disobbedienza e sabotaggio non armata, come attestano le squadre di supporto disarmate e le attività delle donne, oltre che l’azione di disobbedienza civile e culturale di Aldo Capitini. Da qualche anno si sta riconoscendo l’efficacia e l’importanza di queste forme di resistenza disarmata e nonviolenta fondamentali per la nostra guerra di resistenza.

Un’ulteriore forma di lotta nonviolenta in contesti armati ci viene ricordata dal “Machiavelli della nonviolenza”, Gene Sharp, che ha scritto il monumentale “La politica dell’azione nonviolenta” (1973-4), raccogliendo un’enorme quantità di pratiche nonviolente sviluppate nella storia, capaci di fare conflitto senza armi ed avere una loro efficacia. Nel 1923 i tedeschi hanno risposto all’occupazione franco-belga dei bacini minerari della Ruhr attraverso forme di non-collaborazione e sabotaggio che obbligarono il governo francese ad abbandonare quel bacino dopo un accordo preso con il governo tedesco, che in seguito, fece interrompere la campagna di disobbedienza popolare.

Indagare le alternative di pace
Qua e là, anche nel sistema mediatico main stream italiano, si ha notizia di qualche manifestazione di protesta o di azione di disobbedienza civile da parte degli ucraini. Ma quali sono le alternative di pace in questo contesto? Quale potrebbe essere la loro efficacia? Come possiamo agire, prima, durante e dopo, questa ennesima guerra? Come abbiamo visto nel caso della guerra nella ex Jugoslavia, anche davanti la guerra in Ucraina dall’Italia sono partite diverse “carovane di pace” e azioni di pacifiste e nonviolente che, dal basso, stanno cercando di proporre una forma di solidarietà e diplomazia che si muove con una logica opposta a quella sposata dai governi dell’Ue (come quelle cattoliche dell’associazione “Giovanni XIII” e quelle dell’associazione “Mediterranea”).

Dalla prospettiva di chi vuole prendersi cura della nostra casa comune, la Terra, il problema della guerra e della minaccia nucleare non può che essere centrale. La crisi ecologica e la guerra nucleare sono le principali minacce alla nostra sopravvivenza, come da più parti viene ricordato, e sono strettamente intrecciate da tanti punti vista. Sia perché, banalmente, la più importante forma di inquinamento ambientale e di distruzione degli ecosistemi naturali è portata dalle guerre (di cui una possibile guerra nucleare sarebbe l’apoteosi catastrofica), sia perché di entrambe le minacce siamo gli unici responsabili ed esse si muovono seguendo la stessa logica di distruzione violenta. In questo senso il giornalismo ecologico non può che indagare le alternative nonviolente capaci di portare l’attuale escalation armata ad una sua profonda e irreversibile trasformazione.

Risulta quindi vitale e centrale indagare le alternative capaci di portarci ad una rottura con le scelte scellerate adottate sino ad oggi. Ciò non solo è auspicabile, ma sempre più urgente. Anche per rinnovare il progetto europeo su delle basi ecologiche, nonviolente e pacifiste, e dare una possibilità concreta al Pianeta per non sprofondare in un periodo ancora più drammatico di quello che stiamo vivendo, nostro malgrado, in Europa e nel mondo.

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